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Benedetto Croce e il Giornalismo: Analisi di una Stroncatura

Tesina universitaria




”...Ch’é più corto/ spazio all’Eterno, che un mover di ciglia/ al cerchio che più tardo in cielo è torto”. Benedetto Croce scomoda l’Alighieri del famoso verso dell’XI Canto del Purgatorio, per ”bocciare” senza appello il giornalismo. Non è un arte e, dunque, non può albergare nella storia della letteratura. Questa la tesi sostenuta dal grande filosofo che non ammette alla cittadinanza artistica anche quegli esempi grandiosi, che pure ci sono stati, definendoli mere eccezioni. Perchè, sostiene in sostanza Croce, «quando si è Demostene, non si è giornalisti, ma Demostene; quando una pagina è degna di antologia, è cosa d’arte e non di giornalismo».

Croce affronta la delicata questione in un saggio del 1908, dal titolo ”Il giornalismo e la storia della critica”, pubblicato nella raccolta ”Problemi di estetica” (Bari, Laterza, 1940, pp. 128-132). «Ecco ancora un piccolo problema di metodica, agitato di recente: si deve o no trattare, nella storia della letteratura, della cotanto copiosa produzione giornalistica?»: questo l’incipit del saggio crociano, subito entrando nel cuore del problema e con la classica domanda retorica (che peraltro ha tanto il sapore, appunto, di ”attacco” classico giornalistico).

Una questione anche di grandissima attualità, in quei tempi del primo Novecento, dal momento che, nella tradizione ottocentesca, la figura del giornalista professionista rimase vacante, mentre sui giornali scrivevano letterati ed esponenti politici i quali venivano letti ed acquistati soltanto dalle élite. Il background letterario, perciò, ha costituito una pesante ipoteca sullo stile giornalistico di quella Italia caratterizzato da una prosa di impostazione letteraria e costruita con un lessico ricercato se non addirittura criptico quando citava se stesso ad uso e consumo della sua koiné. La modernizzazione si sarebbe attuata a partire dal secondo Dopoguerra quando i giornalisti di quella generazione guardarono, giocoforza, allo stile del modello anglosassone. Infine, a partire dagli anni Sessanta, il giornalismo italiano si è diviso in due sezioni, ispirate da due modelli differenti. Una ha seguito il modello classico che vedeva nella depurazione della lingua il suo primo insegnamento: nessuna ridondanza doveva offuscare la comprensione della notizia. La seconda invece s’è ispirata alle sperimentazioni del new journalism ed al taglio narrativo.

Fatta questa promessa per inquadrare la questione, tornando a Croce, già in apertura del saggio arriva la risposta del filosofo, alla domanda se il giornalismo è letteratura: «Che alla storia letteraria non tocchi direttamente esaminare il giornalismo come istituto sociale e narrarne le vicende, i progressi e le trasformazioni, è chiaro, sebbene in parecchie storie, si introduca la considerazione del giornalismo come opera sociale e politica, cadendosi nella solita confusione tra storia letteraria propriamente detta e storia degli interessi e fatti pratici».

A Croce, comunque, la questione sta molto a cuore. Tanto che l’approfondisce nei suoi particolari fondamentali. E innanzitutto dalla definizione, cioè da ciò che s’intende per giornalismo. «Giornalismo, produzione giornalistica- disquisisce il filosofo- si adopera, anzitutto, in significato letterario come termine dispregiativo per designare un gruppo di prodotti letterari di qualità inferiore. Sono queste le scritture prive di originalità e di profondità, che ingegni superficiali e incolti manipolano giorno per giorno per riempirne i pubblici fogli».

E così come ha fatto, subito, per il ”genere” giornalismo, anche per i suoi epigoni, i giornalisti, Croce ha una bocciatura senza appello: «Se espongono idee, non si accorgono di accozzarne insieme di quelle che si contradicono (sic); credono di distinguere e dedurre, e si lasciano invece facilmente accalappiare dagli omonimi e dai sinonimi. Se ricordano fatti storici, li riferiscono senza esattezza e attingendoli a fonti impure. Se tentano l’arte, non lasciano maturare i germi artistici nei quali s’imbattono, ma ne affrettano lo svolgimento o danno una vana apparenza di compiutezza all’opera loro col mescolare ai motivi artistici elementi affatto estranei».

Il filosofo ha davanti il modello giornalistico di inizio secolo: quei quotidiani che anche in Italia (basti pensare al ”Mattino” fondato da Matilde Serao, la ”giornalista e scrittrice” per antonomasia peraltro proprio della Napoli crociana) stanno prendendo piede. Quel modello, per Croce, è scadente: «Lo stile di quelle scritture è tutto con testo di frasi e parole belle e fatte, e tali da richiedere il minore sforzo così nello scrittore come nel lettore; cosicché talvolta sembra un gergo, analogo a quello dei burocratici. E ora si avverte che le cose vi si tirano in lungo per aver dovuto riempire il numero di cartelle da fornire alla stamperia; e ora che esse vengono strozzate nel meglio, perché quel numero dì cartelle era esaurito».

Modello e stile scadenti ma anche, o forse soprattutto, ”persone” scadenti. Nella sua ”crociata” contro i giornalisti, il filosofo è durissimo: «Il giornalista fa una filosofia improvvisata, una storia improvvisata, una arte improvvisata; e le improvvisazioni richiedono uomini di pochi scrupoli mentali e di scarsa sensibilità estetica. Se anche si abbia una qualche attitudine alla produzione seria, nell’abito quotidiano dell’improvvisazione quell'attitudine si smarrisce. L’artista deve indugiare nel sogno, lo scienziato nella meditazione, lo storico nell’indagine documentaria; ma il giornalista non deve, e, alla fine, anche volendo, non, può».

Una ”crociata” nella quale Croce sembra volersi togliere anche qualche sassolino dalle scarpe. Tant’è che, ad un certo punto, sbotta in uno sferzante giudizio che ha fatto epoca: «Perciò artisti, scienziati e storici guardano con diffidenza, e quasi con orrore, la produzione giornalistica; e, quando alcuno, che fu già dei loro, sì dà a quella sorta di lavoro, lo considerano irremissibilmente perduto. E perciò (si dice), il giornalismo, come non appartiene al mondo del pensiero e della bellezza ma a quello delle cose pratiche, così deve essere escluso dalla narrazione storica dei fasti della scienza e della letteratura». Se il giornalista non è Demostene, non può nemmeno diventarlo, si potrebbe parafrasare.

Il giornalismo, dunque, non è letteratura. Eppure qualcosa da salvare, secondo Croce, esiste. In quanto, ammonisce il filosofo, non è corretto identificare «la letteratura scadente, che si vede nei giornali, con tutta la produzione, che si presenta in quella forma estrinseca, tipografica e commerciale. Una parte cospicua - insiste sul concetto Croce- e squisitissima della letteratura poetica novellistica; e anche filosofica e critica, dei tempi nostri, è passata attraverso il giornale quotidiano: articoli da giornale furono i ”Saggi” del maggior critico italiano o le ”Causeries” del maggior critico francese, e articoli da giornale le novelle del Maupassant. E parecchi scritti poi, che ora ammiriamo come classici e facciamo studiare nelle scuole, furono nient’altro che giornalismo dei tempi andati: le orazioni di Demostene, di Eschine, di Cicerone, o i pamphlets del Courier e le lettere della Sévigné e del Galiani».

Croce sul punto vuole essere chiaro e ribadisce il concetto: «Insomma, o per giornalismo s’intende l’occasione e il modo primitivo di divulgazione, e la tesi è apertamente falsa: o s’intende la cattiva letteratura, e allora non c’è ragione di chiamarla giornalismo, perché di essa fanno parte, non soltanto articoli da giornale, ma drammi da teatro popolare e da teatro di salotto, romanzi da leggere in ferrovia, discorsi politici, prediche, conferenze e (perché no?) molti volumi accademici e professorali, i quali, in punto di leggerezza e inesattezza, non stanno indietro a qualsiasi articolo da giornale e sono scritti, di solito, assai peggio».

Un’apertura? Un filo di credito? Macchè. Subito il filosofo riafferra la bacchetta del cattedratico: «Sennonché, per la medesima ragione, non si può dare campo alla tesi opposta, che difende il giornalismo e ne esalta il valore letterario, ricordando i grandi nomi or ora riferiti, o proponendo che si compilino antologie del giornalismo per conservare meglio di quella geniale produzione giornaliera, così difficile a rintracciare, passato che sia il giorno. Perchè, quando si è Demostene, non si è giornalisti, ma Demostene; quando una pagina è degna di antologia, è cosa d’arte e non di giornalismo».

”Passato che sia il giorno”, appunto. Questo il limite ”letterario” che Croce individua anche nel ”buon giornalismo”: «Come da tutti se ne può fare esperienza, i medesimi articoli, che erano sembrati belli ed efficaci nel momento in cui apparvero, riletti nelle pagine di un libro non paiono i medesimi. Passate le circostanze pratiche, le quali, mercé il fervore prodotto negli animi, colmavano le lacune dell’espressione, facevano sorvolare sulle sue indeterminatezze, abbreviavano le lungherie, rendevano tollerabili le frasi logore, quelli scritti si svelano, per troppi rispetti, difettosi; e, se restano come documenti storici, artisticamente invece sono morti, appunto perché come tali, non furono mai abbastanza vivi».

E questo è un limite, secondo il filosofo, anche per certa letteratura scadente: «Il medesimo accade delle più vivaci e argute conversazioni, le quali, messe in iscritto, si riconoscono come più o meno inconcludenti e insulse. Il medesimo, di certi drammi e romanzi, che suscitano tumulti di commozione, e ci lasciano turbati, e ci fanno, talvolta, piangere; eppure, quando si rileggono, non rispondono alle richieste della fantasia e del gusto artistico e non resistono al ”freddo giudizio del conoscitore”. E poi, quand’anche molte di quelle pagine fossero effettivamente belle e vere, da non lasciar nulla da desiderare, sono esse tali da meritare ricordo e vita più lunghi del giorno pel quale furono fatte?».

La conclusione è amara e, come si diceva in apertura, senza appello: «La maggior parte delle belle parole, che l’uomo dice, e delle belle pagine, che scrive, è destinata a essere presto dimenticata e sostituita. E non se ne affliggano troppo gli amici giornalisti. ”Hodie tibi, cras mihi”. Niente di ciò che l’uomo fa è immortale, fuorché per iperbole (benché tutto sia immortale, in un certo senso); ma vi sono cose che si ricordano più a lungo e più a lungo occupano gli animi umani, e altre che si ricordano e occupano più fugacemente; cibi, che l’umanità digerisce presto, e altri, che le stanno più a lungo sullo stomaco. Se il tempo edace divora gli articoli da giornale, questi, nella voragine dove cadono, nelle male tenebre dell’Orco, sono sia via raggiunti e dai libri meditati e dai poemi elaborati, se non dopo un giorno o una settimana, certo dopo cinquant’anni, dopo un secolo, dopo un millennio o dopo cento millenni: ”...ch’é più corto/ spazio all’Eterno, che un mover di ciglia/ al cerchio che più tardo in cielo è torto”».
Angelo De Nicola


NOTA - Il testo virgolettato è tratto dal saggio ”Il giornalismo e la storia della critica” (1908), in ”Problemi di estetica”, Bari, Laterza, 1940, pp. 128-132. Il testo integrale è consultabile su Internet all’indirizzo: http://circe.lett.unitn.it/le_riviste/bibliografia_gen/biblio/croce2.pdf