LogoLogo

Ombre sul Giallo: Le 17 Versioni di Mauro

Presunto Innocente
A differenza di suo padre Michele, Mauro Perruzza ha "parlato" tanto. Si contano 17 versioni, una completamente diversa dall'altra e delle quali 10 ufficiali (cioè confluite in atti giudiziari), più memoriali, lettere e perfino una sorta di romanzo che il ragazzo avrebbe scritto e la cui storia sconclusionata ruota attorno ad una bambina di nome "Genoveffa".


La bicicletta di Cristina

Le versioni ufficiali fornite da Mauro partono dalla mini-bici di Cristina, particolare ritenuto importantissimo perché è l'unico ad essere presente in tutte le sue testimonianze. Poche ore dopo il delitto, i sospetti degli investigatori si concentrano subito su Mauro. Che, infatti, è tra i primi ad essere interrogato, tra l'altro alla presenza del padre Michele perché è minorenne. Gli agenti, così, scoprono che il ragazzino, dopo aver riparato la bici della cuginetta, è stato l'ultimo a vedere la bambina con la quale sarebbe stato fino alle 21.

Ecco il verbale di quell'interrogatorio:
"Anno 1990, 24 agosto, alle 12,15, davanti a me sottoscritto Pasqualino Cerasoli, dirigente della Squadra mobile della Questura dell'Aquila, assistito dal sovrintendente Antonio Piras, è presente Mauro Perruzza il quale, alla presenza del genitore Michele Perruzza, spontaneamente dichiara quanto segue: "Sono il cugino di Cristina e ieri ho visto la stessa intorno alle ore 17 intenta a giocare con i suoi amichetti Teresa e Domenico. Cristina mi ha chiamato e mi ha detto di portare la sua bicicletta davanti casa. Cristina mi ha seguito pregandomi di aggiustare la bici che era rotta. Dopo avere aggiustato la bici insieme a mia cugina siamo andati verso casa di mio padre. Siamo rimasti insieme sino a circa le ore 21, dopo di che, preciso che ci eravamo allontanati da casa mia verso la piazzetta, io sono andato verso casa e Cristina si è diretta verso casa dell'amichetta Sara".

Dopo questo interrogatorio i sospetti si concentrano ancor di più su Mauro per un piccolo particolare ed una bugia. Il particolare è che gli investigatori già sanno, alla luce dell'autopsia, che la bambina è morta tra le 20,30 e le 20,45; prima, dunque, dell'orario (le 21) indicato da Mauro il quale, da quel momento in poi, sarà sempre vago sugli orari degli episodi che racconta. La bugia è che Sara, l'amichetta di Cristina, quel giorno non era a Case Castella presso alcuni parenti ma era rimasta a Sora dove abitava.


La notte dei misteri

Cosa è accaduto nella ormai famosa e misteriosa nottata che rappresenta la chiave del caso, ovvero la notte tra il 26 ed il 27 agosto? Perché ad un certo punto, addirittura dopo la conferenza stampa degli investigatori che annunciavano la risoluzione del caso grazie "alla piena confessione del minore", Mauro cambia idea? Su questo fondamentale passaggio, Mauro ha fornito varie versioni fino ad affermare tra le lacrime, davanti ai giudici della Corte d'Assise di secondo grado: "Volevo solo proteggere mio padre a cui voglio tanto bene".

È quella notte la chiave del delitto di Balsorano. Una lunga notte che comincia nella caserma dei carabinieri di Balsorano dove, alle 22,40, Mauro viene interrogato come testimone . Qui il ragazzo, il primo sospettato, crolla: "Cristina mi ha chiesto- dice a verbale- se volevo giocare nel boschetto ed io ho accettato". Il "gioco" si mette male: "Cristina si è scesa la tuta. Io mi sono molto arrabbiato e l'ho rimproverata. Lei si è spaventata e si è messa a correre. L'ho inseguita e lei, impacciata nel movimento dalla tutina scesa, è scivolata ed ha battuto la testa contro una pietra svenendo immediatamente. Alla vista del sangue ho perduto ogni controllo e non so perchè ho cominciato a stringerle il collo".

Il verbale viene sospeso: Mauro, da testimone è diventato indagato e viene condotto ad Avezzano dove, alla 1,25 della notte viene interrogato dal Procuratore presso il Tribunale per i minori dell'Aquila . A principio Mauro ribadisce con fermezza ciò che ha detto, ma poi all'improvviso cambia versione e dichiara a verbale: "Sono stato io a convincere la bambina a venire nel boschetto con una scusa ma la mia vera intenzione era di possederla. L'ho spinta per adagiarla per terra ma lei è andata a battere con la testa contro un sasso... mi sono accorto che la bambina era svenuta ed al fine di evitare che potesse raccontare alla madre l'accaduto, l'ho strangolata stringendole il collo".

A questo punto, il giallo: "Dopo la chiusura del verbale, l'imputato ritratta la confessione. Dichiara: ritengo che l'autore del fatto sia mio padre e ciò lo deduco dalla circostanza che alle 21,30 di quella sera vidi mio padre piangere a casa lamentando la scomparsa di Cristina della cui morte non poteva sapere perchè l'allarme venne dato dopo le 22".

È l'alba. Alle 4,20 Mauro viene di nuovo interrogato , alla presenza del commissario capo di Avezzano, Giuseppe Bartoli, e del sovrintendente Antonio Piras. È l'interrogatorio del quale esiste (come ha dimostrato il processo-satellite davanti al Tribunale di Sulmona) l'audiocassetta che, però, non si trova più. Stavolta il ragazzo accusa il padre: "Mentre stavo riparando la bici di Cristina, vidi mia cugina e mio padre che si allontanavano verso il boschetto, mi sono incuriosito e li ho seguiti... Vidi mio padre che cercava di toccare Cristina. Poi l'ha buttata per terra e mentre con la mano sinistra la teneva ferma ha preso con la mano destra una grossa pietra e l'ha colpita sulla testa tre volte". Perché ti sei accusato del delitto? "Per aiutare mio padre quando l'ho visto portato via dai carabinieri".

Ma da dove Mauro ha visto la scena? Sul verbale non c'è scritto ma il ragazzo, davanti alla Corte di secondo grado, ha ammesso di aver parlato di una cabina dell'Enel-Sip (dalla quale, però, come venne subito accertato, non si vede il luogo del delitto). Il particolare della cabina, sostiene la difesa, è contenuto nel nastro della cassetta sparita e, quindi, "non è assolutamente certo che il verbale corrisponda alle reali dichiarazioni del ragazzo".


L'audiocassetta sparita

C'è un ulteriore mistero sulla notte dei misteri. Si tratta della audiocassetta sparita che ha dato origine ad un'inchiesta dalla Procura di Avezzano finita con l'incriminazione di due poliziotti, accusati di aver reso sulla questione false dichiarazioni al Pm. In quella cassetta, ha sempre sostenuto la difesa di Perruzza, c'è sia la prima autoaccusa di Mauro, sia l'accusa al padre: "Dalla viva voce del ragazzo, si potrebbe tentare di capire i motivi della metamorfosi". Che quella cassetta esista, sostiene ancora la difesa, è certo perché lo ha detto non solo il muratore ("Mi hanno fatto ascoltare le accuse di mio figlio contro di me") ma anche altri testimoni e, soprattutto, lo stesso ragazzo nell'interrogatorio davanti ai giudici di secondo grado.


Mauro fa scena muta

Per la prima volta, Mauro non risponde. È accaduto durante l'interrogatorio davanti alla Corte d'Assise di primo grado. Ad ogni domanda, il ragazzo risponde "non ricordo, non so", giustificando le contraddizioni con le precedenti dichiarazioni con una lunga serie di "ero confuso". L'interrogatorio si svolge a porte chiuse ("Perché- sostiene la Corte- il teste è minore e vista la scabrosità della vicenda") alla presenza dell'assistente sociale ma non della madre (perché secondo i giudici potrebbe influenzare il figlio). Un mutismo ed una serie di reticenze che scontentarono sia la pubblica accusa (che ipotizzò un "addomesticamento" compiuto dalla madre) che la difesa del muratore (all'epoca l'avvocato Casciere che in quel processo tentò di percorrere la "terza via", ovvero di sostenere che a commettere il delitto non era stato né il padre né il figlio).


Il capanno

Delle dieci versioni ufficiali fornite da Mauro, la più importante è stata quella davanti alla Corte d'Assise di secondo grado che poi confermerà l'ergastolo per Michele Perruzza proprio sulla base di questa testimonianza. A porte chiuse, il ragazzo cambia completamente versione rispetto a quanto aveva raccontato e parla, per la prima volta, del capanno: "Ho visto mio padre e Cristina che si stavano allontanando", li ha seguiti facendo un altro percorso fino "ad un capanno dove mio nonno ci teneva il maiale, e dal solaio del capanno ho visto una scena un po'... Non è stata un bella scena... Ho visto mio padre che aveva le mani tra la bocca ed il collo della piccola".

Mauro rivela un particolare: "Mentre stava succedendo questo, io ho visto una Renault bianca di Stefano, il marito di Lorenza Capoccitti, chiedete a lui l'orario perché io non lo ricordo". Proprio questo particolare avrebbe convinto Michele (che fino a quel giorno non aveva mai accusato il ragazzo trincerandosi sempre dietro un "non so nulla") della colpevolezza del figlio. Subito dopo quell'interrogatorio, parlando in carcere con i suoi legali, Perruzza si è ricordato di aver visto anche lui, quella sera, l'auto di quel paesano mentre fumava una sigaretta fuori casa sua. "Se Mauro ha visto l'auto che ho notato pure io- ha detto il muratore- allora mio figlio non poteva che stare nei pressi di quel maledetto boschetto".

I giudici hanno anche chiesto a Mauro perché si fosse autoaccusato del delitto. "Per proteggere mio padre", spiega il ragazzo. E perché, in primo grado, non ti ricordavi nulla? "Perché lo volevo sempre proteggere, io volevo far tornare la famiglia come era prima, una famiglia unita" ma "non è stato di mia iniziativa... perché mamma mi diceva che io non facevo niente per salvare mio padre".
Da queste "pressioni" è nato il processo-satellite poi approdato a Sulmona.


Il memoriale

Invece di essere un contributo (tardivo) a trovare la verità in questa maledetta vicenda, il memoriale depositato da Mauro al Tribunale di Sulmona si è trasformato in un boomerang. Nel memoriale (che rappresenta la versione n.17), ricostruendo la scena del delitto a cui sostiene di aver assistito da sopra il tetto del noto capanno, Mauro scrive: "Mio padre le teneva una mano sulla bocca e l'altra sul collo e siccome Cristina continuava a strillare ha preso una pietra e l'ha colpita più volte sulla testa". Due particolari: le urla e la pietra. Ebbene, nella testimonianza in Corte d'Assise d'Appello (quella decisiva per far condannare il padre all'ergastolo) Mauro escluse categoricamente (ad una precisa domanda del presidente della Corte, Bruno Tarquini) di aver sentito la povera Cristina urlare ma di aver sentito soltanto il rumore di un tonfo a terra di una pietra. Quanto, appunto, alla pietra (peraltro pesante 13 chili e che avrebbe sicuramente sfondato la testolina della bambina, risultata soltanto ferita), il ragazzo riesuma la primissima versione accusatoria nei confronti del padre (quella della notte dei misteri del 26 agosto 1990). In Assise d'Appello, invece, sostenne di aver visto il padre uccidere Cristina strozzandola con entrambe le mani.


Il confronto padre-figlio

L'unico confronto tra padre e figlio avviene davanti al Tribunale di Sulmona. "Bugiardo!" dice il padre a Mauro con un sibilo di voce carico di rabbia, quando il ragazzo inizia la sua deposizione. Per la prima volta, Mauro volge lo sguardo verso il padre, prende fiato, lo guarda negli occhi e spara: "Ti ho visto massacrare Cristina".

"Chiariamo subito- testimonia Mauro-: io non ho ucciso nessuno. Non ho mai detto che papà mi ha convinto ad autoaccusarmi, questo lo ha tentato più volte solo mia madre". Ma nel suo lungo interrogatorio si evidenziano alcune contraddizioni e tantissimi "non ricordo", alla fine se ne conteranno 44. Ad alcune domande Mauro non risponde, su altre dice espressamente di aver mentito. "All'inizio ho detto bugie per cercare in tutti i modi di sviare le indagini per alleggerire la posizione di mio padre. Per questo ho dato tante versioni; poi ho deciso di abbandonare questa linea alla vigilia del processo d'appello all'Aquila e lì ho detto la verità. È quella la versione autentica, è quella la verità".

Dopo il padre Mauro passa ad accusare la madre, ma anche in questo caso i contorni dell'accusa sembrano modificarsi da domanda a domanda: "Mia madre mi diceva che ero minorenne e che dunque non mi sarebbe accaduto nulla. Me lo diceva prima che mio padre venisse arrestato, mi diceva che non facevo nulla per salvare mio padre e che dunque ero il disonore della famiglia, che dovevo accusarmi perché ero minorenne e non potevano farmi nulla".
Genitori con i quali Mauro, nella drammatica testimonianza a Sulmona, sancisce la rottura definitiva: "Non li voglio più vedere e sentire. Per me non esistono più. Ho cercato di difenderli, ma alla fine mi sono accorto che erano indifendibili".


Mauro attendibile solo quando si autoaccusa

Se la "testimonianza del capanno" è stata quella decisiva per far condannare il padre all'ergastolo, alla fine del processo-satelitte di Sulmona l'attendibilità del testimone Mauro viene completamente smontata.

"L'assassino è Mauro": il presidente del collegio, Oreste Bonavitacola, non lo dice apertamente ma è questa la conclusione del suo ragionare nelle motivazioni della sentenza. In particolare, il presidente ha "riletto" "le dichiarazioni autoccusatorie di Mauro che ad un'attenta analisi comparativa con le altre circostanze emerse, si rivelano, nei passaggi più salienti, coerenti, concordanti e credibili". Bonavitacola ricostruisce quella maledetta sera del 23 agosto 1990. La nonna di Cristina, a caldo, disse a due giornalisti di aver visto la nipotina allontanarsi con Mauro. "Ciò significa -si legge nelle motivazioni della sentenza Bonavitacola- che verso il bosco, Cristina potrebbe essersi incamminata con Mauro, piuttosto che con Michele. Del resto che la piccola avesse quella sera un tranquillo e piacevole appuntamento, piuttosto che un incontro pericoloso, si ricava dal fatto che, nell'uscire di casa, come riferito dai genitori in Corte d'Assise di primo grado, disse "Non ci chiamate perché so io quando devo tornare". Il senso di quelle parole era chiaro".

Prosegue il presidente: "Coerente è l'affermazione autoaccusatoria nella parte in cui Mauro riferisce che Cristina cadde mentre stava correndo, da lui inseguita, battendo la testa contro una pietra, ferendosi, perdendo sangue e svenendo". E ancora: "Mauro dice al Pm alle ore 1,25 del 27 agosto 1990 che tentò di violentare Cristina, quando giaceva svenuta (...) senza riuscirvi. Ebbene le risultanze dell'esame autoptico sono coerenti con tale affermazione (...) escludendo che si fosse trattato di una versione di fantasia per la ragione che in quel momento il ragazzo non potendo conoscere i risultati dell'esame autoptico, nemmeno poteva riferire circostanze da questo ricavabili". E ancora: "Mauro dice che gettò il corpo esanime di Cristina in un cespuglio e la circostanza è coerente con il fatto che esso fu rinvenuto proprio in un cespuglio". E ancora: "Le asserite abluzioni presso il fontanile pubblico alle mani e alle gambe, riferite anche in Corte d'Assise d'Appello, erano coerenti con la necessità di cancellare le tracce di sangue lasciate sulla sua persona dal contatto con il corpo della vittima durante l'aggressione ed oggi appaiono ancora più coerenti dopo che l'esame del suo Dna ha consentito di stabilire un preciso e forte legame tra lui e gli slip recanti il sangue di Cristina".

Conclude, su questo punto Bonavitacola: "Il legame di Mauro con gli slip macchiati del sangue di Cristina, reso indissolubile dal marchio del suo Dna lasciato sull'indumento, ove fosse confermato con un più completo esame genetico molecolare in altra sede, gli assegnerebbe fatalmente un preciso ruolo nella morte di Cristina e gli darebbe un valido motivo per accusare il padre al fine di allontanare da sè lo spettro di una responsabilità che la tenuta della sua condanna (del padre) varrebbe a scongiurare".




Segui Angelo De Nicola su Facebook