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INTERVISTA A UN DETENUTO



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L’AQUILA - «Io lì ci sono stato: quello di Sulmona è un carcere punitivo, punitivo di brutto...». Nonostante sia con un piede sul treno per tornare nel carcere di Ancona dopo un breve permesso, il ”detenuto comune” D.G.V. non si fa pregare per parlare con il cronista di quella che è stata la sua ”casa” per quattro lunghi anni.

E come tutti i detenuti, D.G.V., quarantenne aquilano che sta scontando undici anni per cumulo di condanne relative a furti e ricettazione, non ha parole tenere per il carcere. Anche se strizza l’occhio «a quei galantuomini dei magistrati del Tribunale di Sorveglianza dell’Aquila: meno male che ci sono loro altrimenti le rivolte in carcere non si conterebbero».
«Sono stato detenuto a Sulmona dal 2000 al gennaio 2004. Un carcere punitivo dove è facile perdere la testa».

Domanda: Che vuole dire per punitivo? Gli agenti la vessavano?
«No, le botte mai. Voglio dire che lì non funzionava nulla.».

D.: Cioè?
«Che per esempio l’infermeria non funzionava, le medicine non c’erano, gli addetti smarrivano le nostre domandine per ottenere qualcosa: ti portavano all’esasperazione. Solo l’aspetto del lavoro dei detenuti, quello sì, funzionava al meglio: io lavoravo presso la falegnameria».

D.: Dunque, secondo lei, è la gestione del carcere che non va, o no?
«A mio giudizio andrebbe sostituito il personale soprattutto i graduati, per cercare di far funzionare al meglio la struttura che, come ”casa di reclusione”, è ”imbottita” di ergastolani e, dunque, ancora più difficile da gestire. Se le cose funzionano, al suicidio non ci pensi proprio. Pensi soltanto ad uscire».

D.: Ha conosciuto l’attuale direttore, il dottor Siciliano?
«Quando arrivai a Sulmona s’era appena insediata la direttrice, quella che poi nell’aprile 2003 si sparò nel suo alloggio. Non l’ho mai conosciuta. Il dottor Siciliano, invece, lo conobbi nel corso di una visita d’ispezione. Noi detenuti sapevano che proveniva da Monza, altro carcere duro, e che anche lui era un ”duro”. Dava l’aria di uno che voleva cambiare lo stato delle cose, di superare certe deficienze».

D.: Ha mai pensato, in cella, al suicidio?
«Tra quattro anni ho finito di scontare la mia pena. Io penso soltanto ad uscire».