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TORNA IN ASSISE LA "BELVA" TRAKOVIC



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L’AQUILA - «Sì, la belva... È troppo facile scaricare un essere umano. Anche a me è venuta la pelle d'oca a leggere le carte processuali di Nenad Vrbanovic, ma è anche vero che questo ragazzo nomade è stato abbandonato da tutti. Anche dalla Giustizia, visto che non è mai stato difeso a dovere. E' vero, molti delitti li ha confessati, ma è anche vero che l'aspetto psichiatrico di una mente sicuramente non sana non è stato sondato come si doveva».

Chi parla è Carmine Rea, avvocato di Ercolano (Napoli) che in passato ha difeso anche il ”boss” della camorra Raffaele Cutolo. A lui la Corte d'Assise di Napoli affidò la difesa d'ufficio di Nenad Vrbanovic, il ventiduenne nomade slavo che in Abruzzo è conosciuto come Slavuj Trakovic, ”la belva” che si lasciò dietro una scia di sangue, violenza e morte seviziando e assassinando una ragazza di Avezzano, compiendo rapine ed un’infinità di furti per poi andare a seminare il terrore in Toscana dove sequestrò e stuprò una bambina di sette anni e tentò di uccidere un uomo prima di essere definitivamente arrestato, dopo un mese di caccia all'uomo, il 18 ottobre '86 a Rimini; ”la belva” che domani comparirà in Corte d'Assise d'Appello, all'Aquila.

Davanti all'Assise napoletana, lo slavo fu chiamato a rispondere, insieme con sua madre Zora Vrbanovic (mai ritrovata), dell’assassino della moglie Lilia Bancolovic avvenuto il 10 ottobre ’85 a Sant’Arpino (Caserta). La moglie, prima di spirare, disse che ad accoltellarla era stato suo marito Ivan Maic che i suoi parenti riconobbero in Tv nel Nenad Vrbanovic arrestato a Rimini. Vrbanovic, che era anche lo Slavuj Trakovic che aveva terrorizzato mezzo Abruzzo. A Napoli, in primo grado, Nenad fu condannato per uxoricidio all'ergastolo nel marzo ’88, qualche mese prima del processo davanti alla Corte d'Assise dell'Aquila che a sua volta inflisse la seconda condanna a vita al nomade per una serie innumerevole (ben 26) di capi d’imputazione. Il primo ergastolo, però, è stato ridotto dalla seconda sezione della Corte d'Assise d’Appello di Napoli, il 3 maggio scorso, a 24 anni di reclusione dopo l'esclusione della premeditazione.

«A Napoli mi sono presentato in Appello- commenta l'avvocato Rea- ma domani non verrò all'Aquila a causa di altri impegni. Ho presentato i motivi d'appello assolvendo ad un dovere morale. Lo abbandono anch'io? Forse. Ma c'è chi l'ha proprio scaricato non concedendo la possibilità di sondare la sua infermità di mente. Non essendo stato seguito da nessuno nelle fasi dei vari processi, non è stata mai coltivata a fondo l’esigenza di approfondimenti psichiatrici e ci si è fermati alla perizia d'ufficio che, pur riconoscendo ”privo di principi morali ma sano di mente”, lascia aperti molti interrogativi. Nei motivi d'appello chiedo una nuova perizia. E' un esigenza dì giustizia».

Ma è anche l'unica speranza per lo slavo, che ha confessato tutto meno lo stupro della bambina toscana di sette anni (un reato contrario anche alla morale dei nomadi e che gli comporterebbe non pochi problemi in carcere), di evitare la conferma dell'ergastolo, ovvero del carcere a vita senza più speranza. In primo grado, nel novembre scorso, l'Assise aquilana lo ritenne colpevole di tutti i ventisei capi d'imputazione. Anche della violenza carnale e dell'omicidio della povera Marina C., la studentessa ventisettenne di Avezzano che nella serata dell'11 ottobre dell'86 si stava intrattenendo in macchina con Antonio T., 45 anni, di Pratola Peligna, in una località appartata nei pressi di Pescina. Lo slavo prima rapinò i due, poi abusò della ragazza e quindi, imbestialito, uccise la poveretta e ferì T. (che riuscì a fuggire).

NOTA: Per una sorta di "diritto all'oblio", sono omesse le complete generalità di alcuni protagonisti che, d'altra parte, non aggiungerebbero nulla al dramma e che, peraltro, sono pubblicate nella versione originale cartacea facilmente consultabile nelle pubbliche emeroteche.