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DOVE È PASSATO, SOLO TANTO SANGUE



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Nessuno vuole difendere ”la belva”. Nel processo che inizia lunedì davanti alla Corte d’Assise dell’Aquila, ben quattro avvocati hanno rinunciato a sostenere la difesa (in termini ”di fiducia”) di Nenad Vrbanovic, 21 anni, lo slavo (forse di Bunibrod), alias Slavuj Trakovic, alias Ivan Maic, alias tanti altri nomi, che per anni ha lasciato dietro di sè una scia di violenze delitti e morte nelle sue scorribande per tutt’Italia. Anche grossi nomi come Fabio Dean (professore ordinario di diritto penale all’Università di Perugia ed ex legale di Licio Gelli) e il napoletano Carmine Rea hanno rinunciato. E un processo "chiuso": lui ha confessato quasi tutti i reati (sono ventisei i capi di imputazione) e rischia l’ergastolo. Oltretutto non ha una lira. Ma forse, difendere un nomade che ha ammazzato due donne, assassinato, dopo averla violentata, la povera studentessa Marina C., compiuto atti non nominabili su una bambina di otto anni, vari tentati omicidi, ratto a fine di libidine, rapine, furti..., è un ufficio moralmente difficile da sposare.

La morale, appunto. Quella che ”la belva" sembra non avere. Soggetto capace di intendere e di volere ma privo di qualsiasi principio morale, lo definisce la perizia psichiatrica espletata nel corso dell’istruttoria. Ma se Vrbanovic non era pazzo nè l’uso spropositato di alcool e di psicofarmaci ne avevano scemato la capacità di intendere e di volere, come si spiega quell’incredibile, folle, sequenza di violenza che ha fatto accapponare la pelle ai più navigati inquirenti di mezza Italia?

Non si sa bene quando Vrbanovic abbia cominciato, anche se lui ha raccontato di essere stato ”iniziato” a piccoli furti, per necessità, dal suo gruppo di nomadi già prima dei 14 anni. Si comincia a fare il suo nome (Trakovic) nell’ottobre dell’85: viene accusato di aver ucciso sua moglie, Lidia Baconolovic, in un accampamento di nomadi a Sant’Arpino (Caserta). Scappa in Francia, ma poi rientra in Italia dove forse entra in contatto con la ’ndrangheta calabrese. Appare nella Marsica, diretto dalla Campania a Roma, ai primi dell’ottobre dell’86. Rapina il sindaco di San Sebastiano di Bisegna, fa benzina a Pescina dove rapina, violenta e uccide una studentessa di Avezzano; Marina C., e tenta di uccidere il professore di Pratola Peligna, Antonio T., con cui la ragazza si stava intrattenendo. Si dà alla fuga e sfugge a tutti i posti di blocco cambiando macchina e documenti: a Roma arriva con una Bmw, in Toscana con una Golf. E a Montepulciano (Siena) riesplode la sua follia: sequestra una bambina di otto anni e la sevizia. La Procura della Repubblica di Montepulciano apprende sulla stampa che in Abruzzo si sta dando la caccia ad un ”marocchino”, forse uno slavo: è lo stesso uomo. ”La belva”, che a Pietranico, sfugge ad un conflitto a fuoco con la Polizia ma poi viene catturalo a Rimini mentre, diretto a Forlì a trovare la madre in carcere, cerca di telefonare alle sue sorelline.

Come si spiega tutto questo? Chi è ”la belva” che ”ama” solo le donne, le auto, l’alcool e gli psicofarmaci? Il trauma di aver perduto, in un incidente stradale, il padre, o quello di essere stato escluso dal suo ”clan” e di essersi perciò avvicinato alla ’ndrangheta calabrese nei cui valori forse si riconosceva, potrebbero aver scatenato in lui una crisi di identità? Potrebbero avergli fatto ”sposare”, valori amorali che il suo gruppo, di religione cattolica, pure rifuggiva? Potrebbero essere alla base di quel sentirsi spesso con la ”testa confusa” come lui stesso ha confessato? L’avvocato d’ufficio nominato dalla Corte d’Assise dell’Aquila, con tutta la buona volontà, forte non riuscirà a dare un valido contributo per rispondere a queste domande.

NOTA: Per una sorta di "diritto all'oblio", sono omesse le complete generalità di alcuni protagonisti che, d'altra parte, non aggiungerebbero nulla al dramma e che, peraltro, sono pubblicate nella versione originale cartacea facilmente consultabile nelle pubbliche emeroteche.