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Il "Delitto di Balsorano" raccontato da Angelo De Nicola

Presunto Innocente
Il Messaggero "Cultura e spettacoli" 18 giugno 2003
Pietro M. Trivelli


Si fa presto presto a dire: "Sbatti il "mostro" in prima pagina!". Quando la cronaca nera diventa psicodramma, tragedia dei sentimenti per chi la legge sui giornali, oltre che per i protagonisti, e - se sono delittacci - è quasi impercettibile il filo rosso che accompagna e divide colpevolisti e innocentisti, allora il "mostro" non è più uno solo. Si sdoppia e si moltiplica, persino nella letteratura più nobile del genere "nero", firmata (ad esempio) da Dostoevskij, secondo cui: "Se il giudice fosse giusto, forse il criminale non sarebbe colpevole".

Chi la "nera" la scrive e la rivive attraverso appunti e impressioni di mestiere, si trova pure lui emotivamente coinvolto nel fattaccio: specie se si tratta di un caso risolto solo ufficialmente, lasciando scoperti dubbi e lacerazioni. E' ciò che ha vissuto nella propria esperienza professionale il nostro Angelo De Nicola, 38 anni, da sette caposervizio della redazione dell'Aquila del Messaggero. Da quelle parti, tredici anni fa (agosto 1990), una bambina di sette anni, Cristina, fu trovata dai cani, massacrata, in una boscaglia.

Era il primo atroce atto del "Delitto di Balsorano", al confine tra l'Abruzzo e il Lazio. Subito si confessò colpevole il cugino tredicenne. Poi, dopo la sua ritrattazione e secondo riscontri oggettivi, fu incolpato e mandato all'ergastolo il padre del ragazzo, Michele Perruzza, muratore: morto d'infarto in galera, nel gennaio scorso, a 52 anni.

Comincia col funerale della bambina e si chiude con quello dello zio, la storia maledetta che Angelo De Nicola ha seguito ininterrottamente, tanto da poterla trasformare in una specie di diario giornalistico, ora raccolto in volume: Presunto innocente (Edizioni tracce, 275 pagine, 19 euro). "Come fossero "fotografie" in rapida sequenza: vere ed in buona fede", spiega l'autore della "cronaca del caso Perruzza" come dice il sottotitolo del libro.

Le date del diario scandiscono ossessivamente la "tragica doppia verità" (come la chiama Renato Minore, nella prefazione) che travolge, con le famiglie della vittima e dell'assassino, l'intera comunità di paese, dove tutti sono vicini di casa, se non imparentati. Ma, se doppia (e anzi multiforme) può essere la verità, una e una sola è la morte che si abbatte - quasi liberazione - sull'oscura tragedia. Nella stessa chiesa dove il 25 agosto 1990 fu benedetta la piccola bara di Cristina, si è svolto il funerale dello zio, il "mostro di Balsorano", ergastolano presunto innocente.

Anche stavolta, tredici anni dopo, i paesani hanno pregato, ascoltando il Vangelo dei due ladroni. Pure le tombe di Cristina e dello zio Michele, sono vicine. Accomunate dall'unica verità dei morti: che - per citare ancora Dostoevskij - non hanno età.




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