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L'Intervento dell'Autore alla Presentazione CARISPAQ

Presunto Innocente
Ecco la trascrizione dell'intervento dell'autore:

Francamente non vi nascondo un certo imbarazzo trovandomi, per la prima volta, nella posizione del presentato e non in quella più comoda, come invece m'è capitato spesso anche in questa sala che non a caso ci ospita, del moderatore.

Imbarazzo che, peraltro, mi ha assalito quando ho cominciato ad ipotizzare di fare questa operazione. Ovvero di mettere insieme degli articoli, seppure i miei e seppure dell'arco di un periodo lungo ben 13 anni, ma pur sempre degli articoli che in fondo, come diceva un maestro, sono pubblicati su un foglio con il quale ci si incartano le uova.

Quell'imbarazzo l'ho superato nel momento in cui mi sono riletto. Vi assicuro che è stato un choc. La lettura, ancora prima che in forma di bozza come quella sulla quale (forse perché simile ai suoi dettagliatissimi block notes che vediamo in Tv quando intervista i protagonisti dei più clamorosi casi di cronaca nera e giudiziaria del Paese) ha preferito studiare quella maniaca della precisione quale è Franca Leosini, la lettura dicevo delle fotocopie degli articoli, uno dietro l'altro, mi ha sconvolto. Incredibile, mi sono detto. Incredibile l'intrecciarsi di una simile storia. Nessun giallista, o drammaturgo avrebbe potuto inventarla. La storia, al di là delle mediocrità di chi la raccontava in questi articoli, emergeva in tutta la sua drammaticità. In tutta la sua maledizione, fin dalla primissima parola: violentata.

Sì perché questo ci si disse a noi cronisti giunti sul posto: la bambina è stata violentata. L'autopsia smentirà questo non insignificante particolare. Ma quella prima ricostruzione, unita ad un lancio d'agenzia forse troppo frettoloso, resterà nella memoria collettiva. Ed avrà il suo peso. Così come mi ha sconvolto nel rileggermi quando affermo, senza vie d'uscita, che Mauro ha confessato: "Incredibile- scrivo- ha fatto tutto un ragazzo di tredici anni".

Mi sono detto: questa è la realtà del romanzo o il romanzo della realtà. E più o meno inconsciamente ho messo in atto un'altra operazione: tentare di "liberarmi", come in una catarsi, di una vicenda che ha segnato la mia vita professionale. E siccome per chi cerca di fare il giornalista la professione è un modus vivendi, il segno è nella mia vita in tutti i suoi aspetti. Anche quello, oggi, di padre di una bambina di 7 anni. Chi ha vissuto, come me, questa storia maledetta sa che sto dicendo la verità, non parole di circostanza.

Dunque mi perdonerete la presunzione di aver voluto fare una sola lunga citazione... di me stesso in una "lunga cronaca durata 13 anni scritta da un cronista d'altri tempi" come è stato autorevolmente scritto da Amedeo Esposito che mi ha onorato di una sua recensione.

Il mio intento, dopo un'attenta riflessione sulle mie carte e sull'intera vicenda, è quello di mettere a disposizione del lettore che avrà la pazienza di leggere questo libro, una testimonianza. Non vi offro, ve lo dico subito, né la verità, né soluzioni del giallo, né clamorose rivelazioni, né nuove chiavi interpretative del maledetto dubbio se è stato il padre o il figlio. Vi offro la sequenza dei fatti, così come sono avvenuti, ripresi da un cronista che sbaglia, s'indigna quando non dovrebbe, si lascia sopraffare da simpatie ed antipatie, non riesce a liberarsi da preconcetti, ha una mediocre preparazione e di troppe poche buone letture. Insomma da un uomo con dei limiti che certo non sbandiera l'obiettività (concetto che quando si cita nel giornalismo è solo per truffare i fruitori del messaggio perché l'obiettività non esiste), ma che rivendica la sua buona fede. Ho sbagliato e spesso sbaglio ma mai per partigianeria o per favorire e-o sfavorire qualcuno o qualche posizione invece di un'altra.

Con questi limiti, i miei articoli rimontati assieme offrono uno strumento al lettore per farsi una sua idea, per tirare lui una sua conclusione. Mi piace l'immagine di una sorta di album in cui sono state raccolte le "fotografie" così come sono state scattate all'epoca: alcune sono sfocate, altre prese da una prospettiva errata, altre indovinate, altre con tinte troppo forti. Ma sempre "vere". Alla luce di questo ragionamento, spero, capirete anche il perché io, nemmeno in questa sede, voglia dirvi l'idea che mi sono fatto della vicenda. E' chiaro che una mia idea me la sono fatta di come sono andate le cose. Ma sarebbe scorretto, sarebbe come tradire quel patto di lealtà sottoscritto con il lettore, se io la rivelassi. E' come se, quale capo cronista di una cronaca cittadina, io sbandierassi a chi dò il mio voto. Certo che ho una mia idea, una mia simpatia politica (anche se da un po' diserto le urne come precisa scelta), ma rivelandola tradirei il lettore-utente il quale, inconsapevole, è raggiunto dal mio messaggio.

Non posso dirvi chi è stato né voglio rivelarvi quello che penso alla luce di questi tredici lunghi anni. La vera verità, poi, in questa storia maledetta non emergerà mai. Mai più dopo la morte in carcere di Michele Perruzza.

Non posso, però, sottrarmi dal dire quello che comunque da una lettura complessiva del libro emerge in maniera netta. Che cioè Michele Perruzza non ha avuto un processo giusto. Occorre che mi spieghi.

"In nome del popolo italiano", noi che siamo lo Stato, abbiamo fatto calare la lama della ghigliottina sul collo di un uomo. L'ergastolo (ovvero "fine pena: mai") equivale nel sistema civilizzato alla pena di morte. Ebbene, il sistema, cioè noi, ha condannato un uomo a morte. Dobbiamo rispettare quella sentenza dopo i tre gradi gradi di giudizio (anche se sostanzialmente Perruzza non ha usufruito di un grado di giudizio). Ma in ogni caso, dobbiamo rispettare quella sentenza.

Ebbene, un altro tribunale, sempre "in nome del popolo italiano", cioè sempre noi, ha spazzato via molte delle prove in base alle quali un uomo era stato condannato all'ergastolo. Dunque, se dobbiamo credere al sistema (vero signor Procuratore Trifuoggi?) allora dobbiamo credergli sempre. Di fronte a questo drammatico pareggio, sarebbe stato giusto concedere a Perruzza il processo di revisione. Ma la Corte di Campobasso, "benedetta" poi dalla Cassazione, ha detto che le due nuove prove a favore di Perruzza emerse da altrettante perizie d'ufficio (le mutande indossate dall'assassino appartengono, all'esame del Dna, al figlio Mauro il quale ha detto il falso quando ha testimoniato di aver visto il padre insidiare ed uccidere Cristina dal famoso capanno perché all'ora del delitto non si poteva vedere nulla in quanto era buio pesto) nel processo di Sulmona comunque non pareggiano le tre prove rimaste in piedi (i capelli strappati trovati su una canottiera sequestrata in casa Perruzza e risultata appartenente al muratore; la testimonianza della moglie del muratore la quale disse, ma poi ritrattò, che quella sera Michele rientrò a casa dicendo "Cristina è morta, Cristina è morta" ed un anonima testimonianza mai sfruttata nelle motivazioni delle precedenti sentenze di condanna).

Ha detto l'avvocato Cecchini: "La tesi di Stato non poteva, non doveva naufragare". Hanno detto gli avvocati Cecchini e De Vita durante la loro orazione funebre al funerale di Perruzza, nella stessa chiesa dove fu dato l'ultimo straziante saluto alla piccola bara bianca di Cristina: "Sulla tua tomba vorremmo scrivere: simbolo di una giustizia ingiusta". Ha detto un infermiere volontario del 118 di Roma che ha telefonato al Messaggero di aver sentito Michele bisbigliare: "Dite a tutti che non sono stato io".

Occorrerebbe forse un altro libro per ringraziare tutti coloro che mi hanno dato una mano, decisiva, e soprattutto mi hanno incoraggiato a portare a termine questa operazione. Non posso non citare il fotografo Renato Vitturini autore della foto-simbolo (Perruzza in ceppi) in copertina elaborata dal grafico Francesco Maria Narducci; un lavoro che è stato poi mirabilmente ripreso e rilanciato da Duilio Chilante, un nome sul quale credo non sia necessario aggiungere altro. Un grazie anche a Vincenzo Battista, uno che di libri se intende, per i suoi preziosi consigli così come si sento di ringraziare i fratelli Rotilio della libreria Colacchi che mi hanno spronato a non mollare. Un grazie alla Carispaq ed al suo Direttore generale, Rinaldo Tordera. Grazie all'editore, Nicoletta Di Gregorio, per averci creduto da subito, quasi ad occhi chiusi. Grazie al moderatore, il professor Francesco Sidoti, criminologo di fama. E grazie, soprattutto, a Franca Leosini: "Solo se posso prepararmi" mi disse, da quella grande professionista quale è, quando la invitai. Prepararsi? Ma se lei sa tutto...

Ma ho due ringraziamenti particolari. Uno per Guido Polidoro, il maestro di un'intera generazione di giornalisti che ci ha lasciato troppo preso tre anni fa. A lui è dedicato il libro per il ruolo che ha avuto nella mia vita professionale ed umana e, soprattutto, per il ruolo che lui ha avuto in questa vicenda. Ricordo le furibonde discussioni con il Capo che mi invitava "a stare ai fatti" a non farmi suggestionare, a fare cronaca. Molti dei titoli, drammatiche sintesi di fatti drammatici, che trovate in testa agli articoli sono i suoi, pensati dopo una lunga e sofferta "digestione". La signora Luigia, che mi ha onorato oggi della sua presenza, sa più di ogni altro che non sto esagerando e sa anche quanto, in questi tempi di crisi, la figura di Guido avrebbe potuto guidare noi, modestissimi, allievi.

Dimentico qualcuno, sicuramente. E nell'emozione di questo momento di catarsi, il mio pensiero corre anche ai miei familiari, a Raffaella che mi sopporta da venti anni. Perciò, l'altro ringraziamento, il più speciale, è per la sintesi della mia vita: mia figlia. Camilla. Che oggi ha sette anni.

Grazie a tutti.





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