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Ombre sul Giallo: I Personaggi

Presunto Innocente

Michele

Tarchiato, la faccia bruciata da sole, le mani tozze, lo sguardo "cattivo", qualche precedente (più chiacchiere di paese che la sola testimonianza agli atti giudiziari) di "attenzioni" particolari su ragazzine: Michele Perruzza ha la sfortuna di incarnare la fisionomia del mostro. Ha sempre negato ogni responsabilità, non ha mai voluto accusare il figlio ("Non l'ho visto uccidere Cristina, non lo accuso") è sempre stato silente. Non ha, infatti, mai voluto raccontare quello che sicuramente sa di quella notte. "Sulla tua tomba- ha detto Cecchini nell'orazione funebre- vorrei scrivere: Michele Perruzza ergastolano innocente, simbolo di una giustizia ingiusta. Sono accanto a te con quelli che ti vogliono bene e che hanno raccolto il tuo ultimo messaggio: "Dite a tutti che non sono stato io". Quando abbiamo deciso di difenderti, a me e a De Vita, dicesti, alzandole, che quelle tue mani non hanno mai toccato Cristina. Noi ti credemmo e, via via, ti abbiamo condotto lungo la battaglia e ci siamo convinti della tua innocenza. Ci duole- ha concluso il legale- non essere arrivati in tempo per liberarti in 12 anni di battaglia nel corso dei quali ti abbiamo abituato a sperare nella libertà. Sei diventato un simbolo che vivrà per sempre".

La sua morte, d'infarto in carcere, sembra la conclusione di una tragedia greca che nessun drammaturgo avrebbe saputo inventare.


Il figlio

Un ragazzo che ha fatto l'eroe per salvare il padre? O un ragazzo dalla mente diabolica e deviata che ha tenuto e tiene in scacco tutti? Oppure, un bravo ragazzo travolto e distrutto da una tragedia immane? Si è detto e scritto a fiumi su Mauro Perruzza. È il ragazzo il principale protagonista di questa triste storia chiusa dalla Giustizia ma ancora aperta per l'immaginario collettivo che continua a sospettare di quel ragazzino. Oggi ventisettenne ed adottato da una buona famiglia, la sua testimonianza (la versione del capanno) è stata decisiva per far condannare il padre. Secondo l'avvocato Cecchini quando il ragazzo, all'epoca tredicenne, si autoaccusò fornisce la prima versione che, alla luce di quanto emerso, potrebbe forse essere la verità: un "gioco" tra bambini finito male, un incidente, Cristina scappa con la tutina abbassata, cade, batte la testa su un grosso sasso, ed alla vista del sangue Mauro invece di salvarla, per paura, la strangola.


La moglie

È lei la chiave del giallo. Lei sa la verità. E tra il ruolo di moglie e quello di madre, ha sempre scelto quest'ultimo. Ma ondeggiando tra i due ruoli, di certo ha contribuito, forse irrimediabilmente, ad ingarbugliare la matassa. In un'intervista ha detto: "Ho anche pensato di ammazzarmi. Sarebbe l'unica soluzione per uscire da questa situazione. Ma non posso farlo: ho tre figli, e il più piccolo ha 8 anni e mi cerca sempre perché sono sua madre. Ma ho pensato davvero di farlo: se mio marito Michele si trova in questa situazione è anche per colpa mia. Anzi, soprattutto per colpa mia".

Ripudiata dal marito (che le ha rimproverato di averlo accusato ingiustamente), ma anche dalla sua famiglia ("Non è degna di portare il nostro cognome" ha detto suo fratello Giuseppe Capoccitti, il padre di Cristina), le è stato tolto il figlio Mauro ed è stata pure costretta ad emigrare dal suo paese. I paesani, infatti, hanno dato l'ergastolo anche a lei. "Quella donna ha sbagliato tutto - ha detto il parroco Don Mario De Ciantis -. Ha voluto fare la primadonna, interviste a destra ed a manca, è stato mio marito è stato mio figlio. Ma insomma! E' la sorella del padre di Cristina. La gente qui è rimasta alla mentalità del Vecchio Testamento: ci ha fatto del male, ora paghi. Sono poco cristiani? Senta, qui c'è ancora gente che mette le dieci lire nell'offerta. E' gente che ha vissuto per secoli nella povertà con le bestie, litigando per qualche centimetro di terra. Qui non c'è un avvocato, non c'è un ragioniere, non c'è un medico e, a forza, i ragazzi prendono la terza media. La mentalità è rimasta quella di una volta. Perciò non perdoneranno quella donna".


I giudici

Dei tantissimi magistrati che si sono occupati del caso Perruzza, emergono due figure. Quelle di Bruno Tarquini e Oreste Bonavitacola. Il primo è stato lo scrupoloso presidente della Corte d'Assise d'Appello che poi condannò Michele all'ergastolo nonostante le "picconate" della rinnovata difesa. Successivamente, passò a dirigere la Procura generale dell'Aquila. L'ufficio cioè che si è messo di traverso, con reiterati ricorsi, lungo la strada di una possibile revisione del processo principale. Per uno scherzo del destino, per la seconda volta Tarquini ha avuto tra le mani la "vita" del muratore di Balsorano. Tanto che la difesa presentò apposita istanza di astensione nella quale si chiedeva a Tarquini, Procuratore generale (Pg) presso la Corte d'Appello dell'Aquila, di astenersi dal valutare la sentenza del processo-satellite visto che la particolarissima situazione "in cui si è venuto giocoforza a trovare il capo dell'ufficio, non può non coinvolgere anche i suoi immediati collaboratori indiscutibilmente condizionati dall'eguale comprensibile disagio spirituale e culturale".

Il giudice Bonavitacola, presidente del Tribunale di Sulmona davanti al quale s'è celebrato il processo-satellite, ha avuto il coraggio di "processare un processo definitivo" attirandosi gli strali della Procura generale dell'Aquila che lo ha pesantemente bacchettato, nelle motivazioni dei reiterati ricorsi, "per essere andato oltre i compiti imposti dalla procedura".
Dichiarò Bonavitacola (che nel corso del processo si trovò a dover affrontare anche le difficoltà di un trasferimento di sede a Roma) in un'intervista: "Sulla vicenda le mie idee sono chiare e per me parleranno le motivazioni della sentenza, anche se ritengo che allo stato esistono margini per la revisione del processo. Poi saranno altri giudici a valutare".


Gli avvocati

Perruzza ha avuto sette avvocati diversi considerando anche il primo che lo assistè d'ufficio subito dopo l'arresto, poi Mario e Carlo Maccallini, quindi Leonardo Casciere e Domenico Buccini, poi Attilio Cecchini e Antonio De Vita (ai quali tornò ad associarsi Carlo Maccallini). Cambi di avvocati e di strategie difensive che hanno avuto un peso rilevante, forse decisivo, nell'intera vicenda. Determinante è stato il collegio Cecchini-De Vita che è riuscito a risalire la difficile strada della verità. Sforzo immane che non è stato premiato dalla concessione del processo di revisione che ha impedito di fare definitiva chiarezza, almeno sotto il profilo giudiziario.

Emblematiche, in tal senso, le dichiarazioni dell'avvocato Cecchini che da giovane, in Venezuela, combatté come giornalista per difendere gli oppressi ed oggi al culmine di una carriera di avvocato che gli ha garantito il titolo di "maestro", ha combattuto (gratis) per difendere dall'ergastolo un semplice muratore: "La mia è stata una battaglia di civiltà. Il sistema doveva avere il coraggio di ammettere l'errore giudiziario che, d'altra parte, è connaturato al processo penale che è un procedimento lungo, fatto dagli uomini che, appunto, sbagliano. Michele Perruzza, un innocente condannato all'ergastolo, non chiedeva vendette. Chiedeva che la giustizia, dal suo interno, ammettendo l'errore, facesse giustizia".




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