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Presunto innocente, cronaca del caso Perruzza - Capitolo 65

Un saggio di Angelo De Nicola

Presunto innocente



65. IL DNA LA PROVA REGINA
13. 12. 1992



Quarantacinque pagine dopo le trentacinque del processo di primo grado e le centotre dell'Appello. Completo delle motivazioni della Corte di Cassazione, depositate l'altro ieri, va in archivio il fascicolo del delitto di Balsorano che si era aperto con mille pagine con cui il Pm, Mario Pinelli, chiese il rinvio a giudizio di Michele Perruzza.
Le 45 pagine firmate dal giudice Corrado Carnevale chiudono una vicenda che, almeno dal punto di vista giudiziario, non ha più zone d'ombra.
Per Perruzza è ergastolo. Senza speranza.
Nelle motivazioni, la Cassazione da un lato esalta il lavoro di verifica delle prove svolto dalla Corte d'Assise d'Appello dell'Aquila, dall'altro critica le riserve apportate dalla difesa (avvocati Attilio Cecchini e Antonio De Vita).
E' un passaggio fondamentale.
S'era detto che la vicenda potesse avere due letture: quella che individua l'assassino di Cristina in Michele Perruzza (portata avanti dall'accusa e recepita dai giudici) e quella che invece getta la croce addosso al figlio minore del muratore, Mauro (sostenuta dalla difesa con l'appoggio di parte dell'opinione pubblica).
Questa seconda “verità”, ha sostenuto la difesa, appare logica quanto la prima.
Potrà essere anche logica, sembra invece rispondere la Cassazione, ma non è supportata da prove come lo è la prima lettura: «La correttezza - si legge nelle motivazioni -, sia sotto il profilo logico che sotto quello tecnico-giudiziario del ragionamento, svolto dai giudici a giustificare il giudizio espresso, rifiuta censure di legittimità, tanto più che, dal ricorrente, non sono indicati precisi e sicuri elementi di contrasto al detto ragionamento ma sono solo prospettate ipotesi diverse, non di rado, ancorate a supposizioni od asserzioni assiomatiche».
Altro aspetto fondamentale è il fatto che è stata ritenuta pienamente utilizzabile la prova del Dna per la comparazione dell'impronta genetica compiuta tra il sangue di Cristina e le tracce trovate su un paio di slip rinvenuti nel corso di una perquisizione in casa Perruzza: «Se non può disconoscersi che l'adozione del test sul Dna quale mezzo di prova nell'ambito delle indagini giudiziarie e nei procedimenti penali ha suscitato accesi dibattiti e serrate discussioni, si deve pure riconoscere che, dalla più accreditata letteratura medica, è stato affermato che il proponimento di impiegare a fini medico-legali le indagini proprie del laboratorio di genetica medica, trova ampia giustificazione nella completa affidabilità e riproducibilità dei test e soprattutto nella qualità, delle risposte che tali test sono in grado di fornire».
Ma la Corte, per rintuzzare le critiche della difesa, precisa anche che «il test sul Dna non è stato ritenuto prova unica ed inconfutabile della colpevolezza, ma è stato valutato in un coacervo di elementi probatori, dei quali è stata individuata ed evidenziata la concordante convergenza verso il giudizio di colpevolezza».
Uno ad uno, la sentenza rigetta tutti i numerosi “motivi” di ricorso presentati dalla difesa. Tra i motivi tecnici, la Corte non ha dato credito né alla tesi secondo la quale l'avvocato (Leonardo Casciere) che difese Perruzza in primo grado era in posizione di incompatibilità poiché aveva in precedenza assistito (e fatto assolvere) Mauro; né alla violazione dei diritti della difesa per la scomparsa, asserita dalla difesa, del nastro su cui era registrata la prima accusa al padre fatta dal ragazzo; né alla inutilizzabilità delle dichiarazioni della “superteste” Rosa Perruzza che quella sera disse di aver sentito il muratore rientrare in casa dicendo «Cristina è morta»; né che erano nulle le dichiarazioni rese da Mauro perché il ragazzo, essendo co-indagato per lo stesso reato, non poteva essere contemporaneamente anche testimone.
Tra i motivi di merito, una lunga analisi viene dedicata per dimostrare l'attendibilità della fondamentale testimonianza di Mauro davanti alla Corte in secondo grado.
Spiegando il contrasto tra le dichiarazioni in difesa del padre in primo grado e quelle di accusa in Appello con l'influenza che aveva avuto sul minore la madre dalla quale fu poi allontanato, la Suprema Corte osserva che i giudici di secondo grado «hanno fornito un apparato critico delle testimonianze del minore e del suo contrastante comportamento nello svolgersi del procedimento, certamente idoneo, per correttezza logico, giuridico ed adeguato a dimostrarne la credibilità.
Quei giudici, infatti, hanno anzitutto sottoposto a vaglio critico il costituito accusatorio del minore, per dedurne, con proposizioni argomentative logiche ed ancorate alle risultanze del processo, una coerenza con le circostanze di fatto acquisite al processo e, soprattutto, con quelle emerse a seguito dell'ispezione dei luoghi effettuata nel corso del dibattimento di Appello e delle considerazioni svolte dal perito, professor Merli, giustamente evidenziano che, a queste ultime, il ragazzo non aveva potuto ispirarsi con malizia, al fine di dare alla sua dichiarazione perché il deposito della perizia era avvenuto in epoca successiva a quella della deposizione».


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