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SEMPRE IN PIEDI, MAI DOMA

Mappa della città
di Luca Marchetti
Da ”Ulisse”, rivista di bordo dell’Alitalia, edizione ottobre 2003 n.235


L’Aquila sveva ed angioina, aragonese e spagnola, borbonica e francese, monarchica e fascista, L’Aquila, città di papi ed imperatori, re e condottieri, mercanti ed ecclesiastici, L’Aquila città di chiese e palazzi, cortili e fontane, terra di confine e di conquista, contesa per secoli per la sua posizione geografica e per la sua ricchezza. Novantanove castelli, novantanove piazze, novantanove chiese e novantanove fontane, la Torre di Palazzo che batte orgogliosamente ogni giorno novantanove rintocchi per ricordare la sua origine imperiale. A cantarla per primo Buccio di Ranallo, nella sua Cronaca persa nelle nebbie della memoria dei suoi concittadini. Siamo ai primi del Trecento, ed il suo volgare aquilano, genuino e vivace come l’aria dei monti che circondano la città, narra di Corrado IV e del suo famoso diploma, della strage dei popolani ad opera dei baroni, la reazione dei villani, la distruzione delle rocche feudali, la vittoria conquistata con le armi, la libertà.

L’Aquila diviene in breve tempo ricca e potente, la seconda città del Regno dopo Napoli, batte orgogliosamente moneta e l’oro e l’argento, frutto dello zafferano e della lana figlia della transumanza, vengono moltiplicati da fiere e commerci. Mercanti fiorentini, veneziani ed alemanni si incontrano ogni giorno per le vie che circondano la piazza grande, la piazza del mercato, dove già dai secoli prima di Roma le popolazioni del luogo si incontravano per barattare le loro merci. Le contrattazioni, i fondachi ed i magazzini pieni di mercanzie e le monete che tintinnando passano veloci di mano scandiscono la vita della nuova città, una vita segnata profondamene da devastanti terremoti intervallati da carestie e pestilenze, da assedi e guerre.

L’Aquila città di santi e di reliquie, di urne preziose d’argento e d’oro opera di orafi esperti, che saccheggi secolari hanno smembrato e distrutto. Chiese ricche di tombe e sepolcri che custodiscono corpi di santi importanti, di quel Pietro da Morrone - Celestino V - e di quel Bernardino da Siena, morto a L’Aquila nel 1444, del quale i Senesi ebbero solo la mula, il saio e qualche libro. I potenti seguaci del frate senese, campioni dell’Osservanza francescana, fondano in città uno dei primi Monti di Pietà ed uno degli Ospedali pubblici più antichi d’Italia, mentre sorgono ovunque mausolei solenni scolpiti nel marmo in chiese sempre più belle erette grazie alle cospicue offerte di generosi mecenati, desiderosi di salvare la propria anima con qualche migliaio di ducati d’oro e con un po’ di messe. Accanto, palazzi ricchi di portali e stemmi scolpiti, di bifore leggiadre e di cortili impreziositi da capitelli decorati con fiori ed animali.

Nel frattempo il Rinascimento scende da Firenze fino in Abruzzo con Saturnino Gatti e Silvestro dell’Aquila, l’arte del primo profusa in madonne dallo sguardo dolce ed enigmatico nello stesso tempo e da angeli musicanti che si stagliano soavi nel cielo, il genio del secondo che raggiunge le vette più alte in statue dalla bellezza eterna ed in sepolcri dall’eleganza classica. Al di là delle Alpi si addensano però nubi fosche che annunciano sciagure: non più lotte ed alleanze tra i potentati d’Italia, stati e signorie, ma guerre tra le forti monarchie nazionali, la penisola scrigno di arte e tesori preda degli appetiti di Francia e Spagna.

L’Aquila intanto si gode la sua ricchezza e la sua libertà in attesa dei nuovi barbari invasori, assapora la novità della stampa e la bellezza delicata ed ineguagliabile degli ultimi codici miniati... poi, d’un tratto, la tempesta, il brusco risveglio, la fine di tutto, due secoli di autonomia spariscono in un attimo sotto il tallone duro dei mercenari del Principe d’Orange. Il suo nuovo signore è l’invitto Carlo V, il sovrano sul cui impero non tramonta mai il sole. Una imponente fortezza spagnola, edificata a spese della città, sorge su una spianata per scoraggiare rivolte e sollevazioni, un’opera di ingegneria militare tra le più alte del Cinquecento, con i cannoni puntati minacciosi sulla chiesa di San Bernardino e la Torre di Palazzo.

Ancora pochi decenni di scampoli di grandezza: i Gesuiti, la favola di Madama Margherita d’Austria, le feste memorabili per l’ingresso di don Giovanni, il vincitore di Lepanto, archi di trionfo effimeri e banchetti costosi in suo onore. Poi, inesorabile, il declino e l’oblio, la fine del commercio della lana e dello zafferano, la separazione del ricco contado dalla città, l’oppressione delle coscienze portata dalla Controriforma, un Seicento che vede la grande peste di metà secolo ed il brigantaggio di Marco Sciarra ed un Settecento che si apre con un terribile terremoto, tremila vittime in una città già povera e dissanguata dalla peste, ovunque macerie, intere famiglie distrutte, palazzi e chiese abbattute, baracche e desolazione. Tanti i terremoti nella storia dell’Aquila, quasi ciclici, tutti tremendi e distruttivi.

Sempre in piedi però i suoi abitanti, mai domi. Questa volta tocca a maestranze lombarde e ad architetti romani dare un nuovo volto agli edifici laici ed ecclesiastici; un tripudio di stucchi e decorazioni barocche sostituisce i santi e gli affreschi medievali. Arriva la Rivoluzione francese, il popolo aquilano e gli abitanti del contado l’accolgono con picche e forconi, ma danno però fuoco, nel contempo, agli antichi archivi del Comune dove sono custodite le pergamene e gli atti che li opprimono da secoli.

Breve parentesi quella rivoluzionaria e napoleonica, giusto il tempo di tracciare qualche strada e sopprimere un po’ di conventi. Tornano i vecchi Borboni dal paternalismo esperto, avversati ed odiati dai borghesi e dalla nobiltà progressista cittadina. Preceduto da qualche moto carbonaro e da alcune cospirazioni, giunge dal Piemonte l’Eroe dei Due Mondi con le sue camicie rosse che, in un baleno, abbatte un Regno vecchio di secoli, i cui sovrani si fregiavano del titolo di Re di Gerusalemme e difensori del Santo Sepolcro. L’Aquila vede così tramontare il rito secolare della transumanza, che univa gli altopiani di Campo Imperatore con il Tavoliere delle Puglie, ma assiste finalmente all’arrivo del progresso e dell’industrializzazione.

La città diviene meta di colti turisti stranieri ottocenteschi che lasciano interessanti ed accurate descrizioni nei loro quaderni di viaggio dai quali emerge il ritratto di una sorta di ”grande borgo” dal passato illustre, tranquillo ed addormentato.

Si entra finalmente nel Ventesimo secolo, L’Aquila dà segni di timido riscatto: è un proliferare di circoli, riviste e giornali, dibattiti e lotte politiche.

Dopo gli anni sonnacchiosi del periodo umbertino e la grande guerra, ecco quelli ruggenti del fascismo, con i suoi programmi e proclami roboanti accompagnanti dall’implacabile piccone del regime, l’ultimo tentativo urbanistico di creare una ”grande Aquila” dagli edifici solenni e scenografici di travertino e di marmo.

Poi una nuova guerra, ancora più grande e devastante della precedente. Giunge la Liberazione e la città repubblicana conosce l’emigrazione, i timidi tentativi di ripresa, l’università, l’espansione edilizia disordinata fuori dalle lunghe e sottili mura medievali, il mito del rugby, il teatro con i suoi spettacoli innovativi, Rubinstein ed il suo magico pianoforte, la disoccupazione e la crisi economica.

Storia di oggi...
Luca Marchetti, giornalista




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