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LA FONDAZIONE DELLA CITTA’ TRA GLI SVEVI E IL PAPATO

Mappa della città
di RAFFAELE COLAPIETRA


Allo schiudersi del Duecento, allorché Federico di Svevia è ancora un piccolo ed indifeso fanciullo sotto la tutela della madre Costanza e di papa Innocenzo III, l'Abruzzo è diventato definitivamente terra di frontiera all'estremo nord del regno di Sicilia costituito dai Normanni con capitale Palermo. Esso non è però ancora punto di transito obbligato, quale diverrà soltanto con gli Angioini, grazie a quell'asse tra Firenze e Napoli che, con qualche immaginosità, ma sostanziale esattezza, è stata chiamata la via dell'oro e della seta, e del quale la fondazione dell'Aquila rappresenterà un caposaldo assolutamente decisivo.

Quest'asse determinerà altresì il prevalere duraturo dell'impostazione longitudinale appenninica, corroborata dalla transumanza, all'interno della struttura regionale abruzzese, che si manterrà intatto fino all'Ottocento. La sua nascita e il suo sviluppo, indissolubilmente intrecciati con quelli dell'Aquila, non sono che i risultati della frattura venutasi a determinare tra l'Adriatico precocemente guadagnato ai Normanni fino alle coste pugliesi ed alla relativa prospettiva balcanica, e l'Appennino mantenutosi tenacemente franco-longobardo anche nelle sue pregevoli manifestazioni artistiche, che si vollero più o meno correttamente raccogliere sotto l'etichetta benedettina. Questa frattura ha messo una volta per sempre in crisi l'impostazione latitudinale dal Tirreno all'Adriatico su cui si era imperniata la romanizzazione col suo grande sistema viario così propizio alla diffusione del cristianesimo.

Il problema dei sovrani Normanni, che sarà anche quello di Federico II, consiste perciò essenzialmente nel debellare l'autarchia, e perciò l'anarchia, dei piccoli e grandi feudatari di origine franco-longobarda nel retroterra appenninico: ed a tal fine gioveranno i vescovi, come a Teramo, o le nuove abbazie rurali, come San Bartolomeo di Carpineto, ma gioverà soprattutto, ripetiamo, il sorgere addirittura di una nuova città, L'Aquila. Essa rappresenta il culmine di un movimento e di una trasformazione che hanno coinvolto un po' tutto l'Abruzzo nella prima metà del Duecento, da Teramo dove i villani partiatores danno vita a quella conduzione sostanzialmente mezzadrile nelle campagne che ne sarebbe restata caratteristica fino ai tempi nostri (ed Atri vi si inserisce come libero comune mentre Città Sant'Angelo vi rilutta ed è rasa al suolo) a Sulmona, in così rigoglioso sviluppo, anzitutto urbanistico, da giustificarvi la famosa localizzazione di una delle quattro curie generali del regno.

Tutto ciò è strettamente collegato con la politica italiana di Federico II e con la necessità di mantenere libere ed efficienti le comunicazioni fra il nord e il sud della penisola. Ne conseguono da un lato l'ulteriore potenziamento della strada dell'altopiano delle Cinquemiglia, dall'altro la costantissima fede ghibellina ed imperiale di Sulmona, che si sarebbe manifestata ancora ai tempi di Corradino con una pioggia di bandi e di persecuzioni che soltanto Celestino V sarebbe riuscito a far cessare, ma soltanto dopo un quarto di secolo, in occasione dell'incoronazione di Collemaggio.

Proprio per illustrare le conseguenze divergenti ed opposte dell'assolutismo fridericiano, le vicende di Sulmona vanno istruttivamente affiancate a quelle di Celano, anch'essa rasa al suolo e rifondata con dislocazione più arroccata, secondo una prassi che in Abruzzo acquista un peso particolare a causa dell'affine, e di poco posteriore, fondazione dell'Aquila. Sulmona strategicamente importante perché al centro dei disegni italiani dell'imperatore si contrappone infatti emblematicamente a Celano in quanto capitale del più ingente fra gli stati feudali non soltanto abruzzesi venuti in essere nella seconda metà del secolo precedente.

Un po' tutte le componenti della storia abruzzese nel periodo svevo fin qui enumerate, dunque, la struttura vescovile, la libertà comunale, la lotta alla feudalità, il problema delle comunicazioni, la trasformazione della campagna e degli impianti urbanistici, si raccolgono in quello che non a caso venne subito avvertito come l'evento principale del duecento abruzzese, la fondazione dell'Aquila.

L'iniziativa di Gregorio IX, di poco posteriore alla distruzione di Celano, è in proposito assolutamente indiscutibile, e non dovette restare senza seguito come alternativa guelfa e popolare al potenziamento ghibellino ed aristocratico di Sulmona. Non a caso il documento del 1254 di Corrado IV da Rieti, che segna il primo caposaldo certo e fisso nella storia aquilana al di là dei vagheggiamenti mitici ed eruditi suscitati dal fascino paterno di Federico II, quel documento, dicevamo, che prende atto del conurbamento in corso, e lo conferma e lo promuove, è emanato in presenza di arcipreti, di preposti, di notai, di grossi burocrati, ma anche di un grande feudatario, Tommaso di Mareri, che, a differenza del suo omonimo di Celano, ha saputo a tempo e luogo inserirsi in un mondo in irreversibile evoluzione.

La traslazione della diocesi da Forcona nel 1256 e l'incendio della giovane città nel 1259 ad opera di Manfredi si collocano come elementi dialettici di un percorso che non tardò a riprendere con vigore, nell'ambito guelfo di Roma e dell'Umbria, che gli Angioini ben presto avrebbero allargato alla Toscana. Se si pensò di aggiungere, a poche dozzine di miglia da Sulmona, un nodo ancor più cospicuo e rilevante a quella che andava precisandosi come via degli Abruzzi, lo fu dai pontefici a guisa di testa di ponte in direzione dell'interno del regno, lo fu dagli Angioini ad uso esterno verso il cuore della penisola, come una mano tesa a Perugia e Firenze. Chi ancora oggi riesce ad abbracciare con un solo sguardo la Collemaggio dell'eremita del Morrone e l'orgogliosa facciata del santo di Siena, nel mezzo la porta di Bazzano da cui si diparte la strada per Napoli, colui ha stretto visivamente in sintesi l'intera storia dell'Aquila.




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