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Angelo De Nicola Racconta il Terremoto dell'Aquila

Intervista ad Angelo De Nicola per il sito abruzzocultura.it
13 novembre 2009
Simone Gambacorta




Angelo De Nicola è nato nel 1965 a l'Aquila ed è caposervizio del "Messaggero". Ha pubblicato "Il nostro terremoto" (One Group Edizioni, con un saggio di Attilio M. Cecchini, pp. 280, sip), un libro dove ha raccolto una serie di suoi articoli e molte lettere scritte dagli aquilani dopo la tragedia del 6 aprile. Lo abbiamo intervistato.

Domanda: Lo chiedo al giornalista, lo chiedo all'aquilano, lo chiedo all'uomo: a distanza di oltre sette mesi, qual è la sensazione che le suscita il ricordo del terremoto del 6 aprile?
Risposta: «Fisicamente sento ancora quel sibilo nelle orecchie. Una sorta di ruggito, lungo, che non finisce mai: è come un incubo che non passa nemmeno quando ti risvegli e ti dai un pizzicotto. Non credo che riuscirò a superarlo. È una sensazione di impotenza che relativizza tutta la tua vita: nulla è più come prima».

D.: Il suo libro s’intitola "Il nostro terremoto": mai aggettivo possessivo fu più opportuno, purtroppo...
R.: «Qualcuno ha ipotizzato anche una sorta di rivendicazione campanilistica della tragedia, nella peggiore accezione dell'aquilanità. Non è così, ovviamente. Quell'aggettivo, quel "possesso" stanno però a ricordare che chi non c’era non può capire cosa è stato il terremoto del 6 aprile e che cosa è il dopo-terremoto. Questo non vuole colpevolizzare nessuno. Anzi, vuole responsabilizzare ancor di più gli aquilani a saper reagire, con la dignità finora dimostrata ma anche con la necessaria determinazione che l'avvocato Attilio Cecchini richiama nel suo saggio, che non a caso apre il libro, sulla "Aquilanitas applicata al terremoto"».

D.: Oltre al saggio inedito di Cecchini, il libro si compone di due parti: la prima è "Il diario di un terremotato"; la seconda è "Lettere da un terremoto". Spieghiamo ai nostri lettori in cosa consistono queste due sezioni.
R.: «"Dormivo. Come molti, avevo fatto spallucce all'ennesima scossa da dicembre, poco prima delle 23, dopo aver imprecato, io interista, per il doppio gol del Milan nel finale. «Lella- dico a mia moglie- che botta! La piccola Camilla dorme? Non s’è svegliata, meno male: è così stressata da tutte queste scosse. Beh, allora andiamo a dormire pure noi: se proprio dobbiamo, moriremo nel sonno»". È l'incipit dell'articolo che ho scritto sulla prima pagina del "Messaggero" quello stesso, drammatico, 6 aprile. Il terremoto raccontato da chi l'aveva provato sulla propria pelle. Da quell'articolo è nata la rubrica "Diario di un terremotato" nella quale ho raccontato per il "Messaggero", in prima persona, le difficoltà di ritrovarsi, senza casa, sfollato sulla costa con la mia famigliola, tra mille problemi, ansie, drammi e speranze. Quel "Diario" s’è trasfuso nel libro. "Lettere da un terremoto", invece, contiene le più significative e drammatiche lettere dei lettori dopo il sisma pubblicate nella rubrica "Dillo al Messaggero" da me curata».

D.: Per questo nella premessa parla di "catarsi corale" e di "pubblicazione collettiva"...
R.: «Questo diario collettivo vuole fissare le nostre emozioni. Le fortissime emozioni di quella maledetta notte ma anche dei tragici giorni successivi, quando lo sbandamento è stato più forte di quelle scosse a ripetizione dopo l'ululato dell'orco alle 3:32. Le emozioni di chi, come me, ha avuto la "fortuna" di poterle raccontare in presa diretta, e di quelli che hanno avuto la forza di scriverle e inviarle ad un giornale. Una sorta di catarsi corale che non ha da raccontare nulla di nuovo, di sensazionale, di non detto. Vuole solo fissare le nostre emozioni».

D.: Diario, lettera, due parole che conducono a concetti comuni: il ricordo, la testimonianza, la comunicazione, il dire, il raccontare e il raccontarsi...
R.: «Esattamente. E io direi pure il raccontare ed il raccontarsi attraverso lo scrivere come operazione terapeutica».

D.: Per quanto riguarda la seconda parte, il suo libro me ne ha ricordato un altro, simile e diversissimo: "Epistolario collettivo" di Gian Luigi Piccioli, apparso nel ’73
R.: «Il paragone mi onora ma mi sembra francamente eccessivo. Con Piccioli, scrittore affermato e sopraffino, ho in comune soltanto la provincia di nascita, l'Aquila. Vivo di scrittura da quando ero adolescente e peraltro anche Piccioli cita questa sua passione nata da giovanissimo nella sua intervista con Abruzzocultura.it (si veda l'intervista pubblicata in questa rivista, ndr); ho pubblicato otto libri tra cui la coppia di romanzi su Celestino V; scritto saggi e reportage, ma resto un giornalista di campagna. Dalle mie parti, con l'acume della saggezza popolare, dicono: "Ahi voglia a mangiar patate"».

D.: Tempo fa parlavo con una delle maggiori personalità culturali aquilane, Anna Ventura. Mi disse che il sisma non ha "solo" distrutto una città, è andato oltre: ha distrutto una civiltà, un sentimento di appartenenza. È d’accordo?
R.: «È così. Quei ventidue secondi hanno distrutto l'identità di un popolo, gli aquilani, da secoli abbarbicati più psicologicamente che economicamente e socialmente, attorno al loro centro storico, ai suoi vicoli, ai suoi profumi, ai suoi silenzi, alle sue antiche pietre bianche di palazzi e chiese. Il sesto centro storico in Italia – e, dunque, al mondo – per numero di monumenti importanti. Quel centro storico non c'è più e difficilmente risorgerà in tempi brevi visto che, secondo la prima stima, occorrono 300 milioni di euro soltanto per i 46 monumenti principali la cui lista non comprende, ad esempio, i tanti palazzi gentilizi che pullulano nel cuore della città. l'Aquila sarà ricostruita, ma se non dovesse rinascere il suo centro storico "l'Aquila non sarà". È una sfida enorme. Dopo il devastante terremoto del 1703, gli aquilani la vinsero».

D.: Non c'è allora solo da ricostruire l'Aquila, c'è da ricostruire anche un certo modo di essere, di sentirsi aquilani, di vivere una condizione storica e geografica.
R.: «Sentirsi aquilani, appunto. Prendo a prestito le parole del saggio di Cecchini: "Ma l'Aquilanitas non demorde, malgrado tutto quello che produce ’desinit in piscem’. Dissacrante, permalosa, anticonformista, trasgressiva, trasversale, controversa, anacronistica, essa continuerà a spruzzare adrenalina e veleno negli ingranaggi della futura rinascita, perché della polis è la radice più profonda. Questa è la nostra divisa da settecentocinquantacinque anni, la cifra esistenziale di una comunità unica al mondo, rissosa e campanilista in tempi sia di vacche grasse che di miseria, libertaria ed anarchica secondo l'omaggio che le rese Niccolò Machiavelli, irriducibile come purtroppo constatò a sue spese Braccio da Montone, una comunità che Bertolaso avrà capito che deve prendere con le molle, e farà bene a soffiarlo in un orecchio al Cavaliere"».

D.: L'immagine in copertina del suo libro è di Stefano Ianni, un artista aquilano...
R.: «Come per il contenuto del libro, anche la copertina è una "nostra" storia collettiva. c'è di mezzo l'amico Stefano, artista affermato, ma anche suo fratello Cesare Ianni, che io avevo già definito nel mio libro "Da Tragnone a Fidel Castro" come "l'Indiana Jones dell'Aquilanità". l'immagine di copertina è tratta da un murales che, subito dopo il sisma, Stefano ha realizzato su un muro di una casa all'Aquila, nel quartiere di Pile, ma anche a Montesilvano, sulle pareti di uno stabilimento balneare. Il murales, oltre alla data fatidica ed all'immagine di un’aquila che quasi si fa Gran Sasso, mostra la parola "Risorgeremo". Ho chiesto a Stefano di modificare l'originale per contenere la frase nel nostro dialetto "Jemo ’nnanzi" ("andiamo avanti"). Si tratta della frase che chiude gli sms che Cesare Ianni inviava a me e a tutti gli amici, tutte le sere, contribuendo a tenere unità la comunità degli sfollati. Gli sms sono tutti finiti nel libro. "Jemo ’nnanzi" è diventata una sorta di grido di battaglia di tutti quegli aquilani che credono in un futuro di ricostruzione materiale e morale».

D.: Da un punto di vista esteriore, la popolazione aquilana ha dato prova di grandissima dignità, come del resto hanno sottolineato tutti i media. Ma a lei, che è aquilano, vorrei chiedere questo: da un punto di vista interiore, come ha reagito l'identità aquilana al terremoto?
R.: «La dignità è nel Dna di questa gente di montagna, gente tosta, abituata da secoli a soffrire, adusa a terremoti devastanti come quelli del 1461 e del 1703. Questo terremoto ha però colto la città nel suo momento più difficile, in cui l'identità si era molto affievolita soprattutto per l'inezia di una classe dirigente che, complessivamente, non si è dimostrata all'altezza del blasone. La peggiore tragedia è capitata, dunque, nel momento peggiore. Questo rende la sfida ancora più ardua. Vincerla dipenderà da noi aquilani, da quanto sapremo ritrovare la nostra identità, la nostra "aquilanitas"».

D.: Per Lei, come giornalista, che cosa ha significato "raccontare" il terremoto? Voglio dire: che cosa significa, per un uomo che fa il giornalista, dover "guardare" ogni giorno il mostro in faccia?
R.: «Il lavoro come dovere civico ma anche come terapia. Pur ferito – non gravemente: uno squarcio sul capo ed uno sul volto, un braccio ammostato – sotto un crollo nella mia abitazione, una volta curato e medicato all'ospedale di Pescara nel pomeriggio di quel maledetto 6 aprile, ed una volta messa al sicuro la mia famiglia nella casetta delle vacanze a Francavilla al Mare, mi sono messo subito a disposizione della redazione del mio giornale nel capoluogo adriatico, come penso debbano fare in questi casi i medici, gli ingegneri, gli operai, ecc. In quel momento, ho pensato, ognuno doveva fare quello che sapeva fare. Così, quella sera stessa, è nato il drammatico articolo che è diventato l'incipit del libro. Nei giorni successivi, mi sono tuffato nel lavoro per cercare di lenire le "ferite" dentro. Lavorare mi ha fatto bene: la depressione, in questi casi è dietro l'angolo».

D.: Nel 2003, con Tracce, ha pubblicato il volume "Presunto innocente. Cronaca del caso Perruzza", un caso che – ha detto – ha segnato la sua vita. Anche questo nuovo libro nasce da una tragedia che, in modo diverso, ha segnato la sua vita, la sua e quella di moltissimi altri. Quand’è che le parole che si sono scritte esprimono quell'urgenza che le porta a pretendere d’essere sottratte alla provvisorietà del quotidiano?
R.: «Non sono attrezzato per rispondere a questa domanda. So solo che anche in quel caso il libro venne fuori per una catarsi. Una purificazione per me che, per una serie di circostanze, ebbi in sorte di seguire, come cronista del "Messaggero", tutti i passaggi del clamoroso caso del "Delitto di Balsorano". Dietro il mettere insieme, in una pubblicazione, il nudo e crudo materiale giornalistico c’era soprattutto questo: la sofferenza, umana e professionale, che ha accompagnato chi ha raccontato sulle colonne di un quotidiano una storia maledetta che s’è dipanata per tredici anni. Una storia maledetta che ha toccato tutto l'arco dei sentimenti e delle sensazioni in un maledetto contrasto tra loro: la vita e la morte, l'amore e l'odio, la genialità e l'imbecillità, il potente ed il poveraccio, il conformista ed il rivoluzionario, la verità e l'inganno e, soprattutto, la giustizia e l'ingiustizia. Una storia maledetta che si apre con la morte e si chiude con la morte. Una storia maledetta che ha lasciato un campo di croci. E di sconfitte. Tutti, proprio tutti, sono usciti battuti».

D.: C'è un qualcosa di etico, in tutto questo. Un qualcosa che ha molto a che fare con la "verità" – la nostra "verità", quella di ognuno, non certo quella universale – e poco a che fare con la retorica e i moralismi buoni per tutti le stagioni. O no?
R.: «Verità? La nostra "verità"? Lei fa bene ad usare le virgolette. Tanti anni di professione, purtroppo, mi hanno insegnato che non esiste una verità, ma tante nostre "verità". Retorica e moralismi, poi, non appartengono più a chi, come me, ha relativizzato la propria vita dopo il 6 aprile. l'etica, al contrario, non può che essere l'unico valore fondante che deve prescindere dalle tragedie».

D.: A proposito di retorica: in ragione degli effetti collaterali dell'inflazione mediatica, crede esista il rischio che – oltre Abruzzo – il "problema" del terremoto sia offuscato dalla "retorica", vacua e carica di alibi, della solidarietà e del compatimento fini a loro stessi?
R.: «Ho letto cronache, anche di grossi calibri, impregnate della più becera retorica. Ma non mi scandalizzo: solo chi ha visto l'orco in faccia può capire. l'inflazione mediatica, al contrario, non è sempre un male: è peggio quando si spengono i riflettori. E se all'Aquila cala il sipario, la ricostruzione potrebbe essere una sfida impossibile».

D.: Come valuta l'azione del Governo nel post-terremoto?
R.: «Il "miracolo italiano" c'è stato, indubbiamente. Soprattutto nella gestione di un’emergenza epocale con 70.000 sfollati ed un sistema-città distrutto e nella realizzazione degli alloggi definitivi. Un miracolo che, con una maggiore capacità della classe dirigente locale, poteva essere amplificato: mi riferisco, per esempio, alle localizzazioni decise dal Comune dell'Aquila degli alloggi del "Progetto Case" o ai criteri di assegnazione che non sono stati il massimo della trasparenza. Il commissario straordinario Bertolaso, grande protagonista di questa fase, ha annunciato che a fine 2009 andrà via e con lui la Protezione civile. Sarà quello il momento decisivo in cui la classe dirigente locale dovrà prendere in mano una situazione difficilissima. Fondamentali saranno i finanziamenti. Ma ci vorrà soprattutto creatività, quella che, ad esempio, ha spinto "B & B" – Berlusconi e Bertolaso – ad organizzare all'Aquila il G8 che ha posto questa meravigliosa città all'attenzione del mondo intero».

D.: Che inverno sarà, questo a cavallo tra il 2009 e il 2010, per voi aquilani?
R.: «Dopo la scorsa Santa Pasqua, capitata ad una settimana dell'apocalisse ed a due giorni dagli strazianti funerali di Stato per le 300 vittime, ed il tristissimo Ferragosto, non oso pensare a cosa sarà l'ormai imminente Natale. E non oso pensare a cosa sarà quando scenderà la neve e non potremo assistere, col naso all'insù, al precipitare dei fiocchi tra i vicoli del centro trasudanti dell'odore dei camini. Sarà un inverno tristissimo. Ma poi arriva la primavera».




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