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OMICIDIO PASTORE A BUGNARA: CONFERMATI I 24 ANNI



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L’AQUILA - «Ennio... Ennio... apri.. sono io». A fare da ”esca”, nell’agguato mortale di quella sera del 24 marzo 1986, al pastore cinquantenne Ennio Santilli, fu con tutta probabilità il suo amico Nino L., 23 anni. Il giovane, con una scusa, riuscì a far venir fuori il pastore «sospettoso e timoroso» che mai avrebbe aperto l’uscio del suo casolare alla periferia di Bugnara (centro della Valle Peligna a pochi chilometri da Sulmona) ad uno sconosciuto o a persona non fidata. Una volta fuori casa, Santilli fu ucciso con quattro fucilate, le prime due a bruciapelo, la terza mentre cercava di fuggire, la quarta, il colpo finale, alta nuca, a pochi metri dal suo casolare. Ma chi sparò? In quanti gli tesero l’agguato? Per quale motivo? E quale fu il ruolo di Leopardi?

La Corte d'Assise d’Appello dell'Aquila, che ieri ha aperto la sessione autunnale, non è riuscita a dare risposte a queste domande. Il presidente della Corte, Bruno Tarquini, il consigliere Romano e i giudici popolari, hanno infatti confermato (come aveva richiesto il Pg, Iadecola) la sentenza emessa l’8 marzo scorso in primo grado: condanna, per omicicio volontario, a 24 anni di reclusione per Nino L. e assoluzione, per insufficienza di prove, dell’altro imputato, Pasquale Z., 36 anni, che ieri non si è presentato in aula.

Conferma della sentenza ma anche dei dubbi che nemmeno nelle motivazioni di questa erano stati fugati. L., quella sera, fu presente all’omicidio: questo è sicuro per i giudici dal momento che la maggior parte dei particolari dell’omicidio resi dal giovane in un prima confessione (poi ritrattata) sono risultati minuziosamente coincidenti con quanto accertato nell’istruttoria. Ma era L. persona capace di premeditare e compiere un delitto, in maniera così cruenta e determinata, per impossessarsi, come ha sostenuto l’accusa, di poco più di un milione di lire frutto della vendita di alcuni capretti effettuata quattro giorni prima da Santilli?

No, ha sostenuto ieri l’avvocato difensore di L., Vincenzo Masci del foro di Sulmona, il quale nella sua arringa ha posto l’accento sul fatto che la sentenza di primo grado non fa nemmeno un accenno ai risultati della perizia psichiatrica la quale sostiene che Leopardi è al limite tra capacità e incapacità e che «pazienti affetti da labilità mentale lieve per la loro suggestionabilità possono cadere vittime di raggiri o, dominati da altri, come esecutori di azioni di cui non comprendono appieno la portata e le finalità antisociali». Sulla base di queste considerazioni, l’avvocato Masci ha chiesto alla Corte, in subordine alla assoluzione per insufficienza di prove (sostenuta in base base all’esito negativo della prova del ”guanto di paraffina” su L.), il riconoscimento della seminfermità di mente con conseguente riduzione della pena. Non è stato ascoltato e i giudici non si sono fatti suggestionare nè dal comportamento in aula di L. che non ha battuto ciglio anche quando il suo avvocato gli ha dato, in pratica, del menomato, nè dalla deposizione di ieri dell’imputato che, al limite della calunnia, ha dichiarato che carabinieri e inquirenti gli hanno estorto a forza la confessione con una promessa di scarcerazione.

Come andarono i fatti, forse, lo sa soltanto L. che paga, pesantemente, il suo continuo dire e poi ritrattare. Il suo accusare dell’omicidio, anche quando, scarcerato per mancanza di indizi, avrebbe potuto tacere, tante persone (tra cui lo Z.) che furono arrestate ma poi prosciolte. Nessuno, a quel punto, gli ha più dato credito salvo per quegli elementi dai riscontri validi che lo hanno ”inchiodato” a personali responsabilità.

NOTA: Per una sorta di "diritto all'oblio", sono omesse le complete generalità di alcuni protagonisti che, d'altra parte, non aggiungerebbero nulla al dramma e che, peraltro, sono pubblicate nella versione originale cartacea facilmente consultabile nelle pubbliche emeroteche.