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Elezioni Comunali 2007

Intervista ad Angelo De Nicola de ilcapoluogo.it
novembre 2006




Domanda: Giornalista, un mestiere un tempo sognato e ambìto. Oggi precario, insicuro, avventuroso e per niente avvenente. Almeno per i più.
Risposta: «Il mio Maestro, Guido Polidoro, ripeteva sempre che "si studia una vita per diventare cronisti ma spesso non ci si riesce". Ecco: lo studio. Questa è la declinazione del giornalismo, oggi come ieri, nei momenti d’oro come in quelli bui come l'attuale. Questo è quello che la nostra "generazione" di giornalisti non riesce ad insegnare alle giovani leve, distratta forse da una crisi soprattutto morale. Mancano punti di riferimento certi, i "maestri" insomma. Cosicchè qualcuno, in città, pensa che essere cronisti significhi imbucarsi ad una "succulenta cena" offerta dal potente di turno, sfoggiare il permesso per l'isola pedonale, entrare gratis al cinema ed allo stadio. Molti problemi di una professione che sta cambiando pelle sono oggettivi ma molti sono anche soggettivi. In una città di provincia come la nostra, risaltano di più».

D.: Giornalista, ma anche scrittore da qualche anno. Forse per essere più te stesso, oppure per evadere dalla routine della cronaca quotidiana? O per una "chiamata" vocazionale?
R.: «Per me che, a 15 anni, sono entrato in una redazione fumosa di un quotidiano nella quale c'era "il Capo" che, in meno dieci minuti, componeva un editoriale perfetto e senza il benchè minimo refuso ticchettando a dieci dita sulla tastiera di una "lettera 22", per me la scrittura è tutto. E' l'oggi, è il domani. Detto questo in termini generali, la stagnazione (soprattutto di spazi) in cui si dibatte da anni il mio giornale, "Il Messaggero", nella sua espressione abruzzese ed aquilana, mi ha convinto a convogliare altrove le mie energie creative. Così ho iniziato un percorso di studio: dal libro sul caso Perruzza ("una lunga cronaca durata 13 anni scritta da un cronista d'altri tempi" la definì Amedeo Esposito) al saggio "Da Tragnone a Fidel Castro", ovvero l'opera a cui tengo di più perché lì dentro c'è il mio più che ventennale lavoro (di scrittura) quotidiano di giornalista. E perché c'è una sperimentazione (sulla scrittura) che potesse consentirmi di tentare di guadagnare un mare aperto (il romanzo) dopo aver conosciuto a fondo un porto (gli articoli). Scrivere è sperimentare: se stessi, l'oggi, il domani, la vita. Inevitabile, forse, il salto nella narrativa. Salto senza rete? I lettori, sempre loro, sono i giudici e diranno se "La maschera di Celestino" ed il nuovo "La missione di Celestino" hanno diritto di cittadinanza».

D.: Come giornalista tra i migliori in Abruzzo, e scrittore spiritoso e arguto, quale soddisfazione hai assorbito, e gustato, di più? l'ossequio dei potenti, i complimenti dei lettori, l'invidia di alcuni colleghi?
R.: «l'invidia non mi appartiene e non la giustifico, alla luce soprattutto del momento di crisi che, a livello nazionale ma anche locale, attraversa la nostra categoria che, al contrario, dovrebbe unire le forze per cercare di superare i problemi e tornare ad essere un contropotere credibile, un "cane da guardia" efficace. La soddisfazione più grande? La menzione speciale nell'ambito del "Premio Polidoro" del 2004, per il volume "Da Tragnone a Fidel Castro". Dice, tra l'altro, la menzione: "Il continuo richiamo al "capo" e al "maestro" che De Nicola fa nel suo racconto sono la testimonianza più vivida della risorsa umana, prima ancora che professionale, che Polidoro ha saputo positivamente infondere in decine e decine di giovani che si sono avvicinati al giornalismo fino a farne la loro professione e vita"».

D.: De Nicola, su un giornale normale, in un giorno normale, dietro e tra le righe, quanta verità c'è? E' possibile scrivere sempre e comunque la verità? Oppure ci piace crederlo e farlo credere?
R.: «Da "aspirante cronista", ogni giorno commetto errori, spesso m’indigno quando non dovrei, a volte mi lascio sopraffare da simpatie ed antipatie, non riesco a liberarmi da preconcetti, ho una mediocre preparazione e sono di troppe poche buone letture. Insomma sono un uomo con dei limiti che certo non sbandiera l'obiettività, concetto che quando si cita nel giornalismo è solo per truffare i fruitori del messaggio perché l'obiettività non esiste, ma che rivendica la sua buona fede. Ho sbagliato e spesso sbaglio ma mai per partigianeria o per favorire e-o sfavorire qualcuno o qualche posizione invece di un'altra. E, mi si può credere o no, da quando nel 1996 ho assunto la responsabilità della redazione dell'Aquila del Messaggero, nelle innumerevoli campagne elettorali (una decina) che ho "gestito", non ho mai, ripeto mai, subìto alcuna pressione tranne che in un caso, per una tornata delle Politiche, da una candidata che si fece "raccomandare" dall'editore, anche se solo per avere un occhio di riguardo».

D.: L'Aquila, città indubbiamente malata, sofferente, defedata, arrancante. Ci sono colpe, responsabili da additare, ma anche rimedi da adottare?
R.: «c'è solo un rimedio: unire le forze, superare le divisioni (centrodestra-centrosinistra, neri-verdi, rossi-blu) e ritrovare quella compattezza che, in passato, ci ha fatto grandi soprattutto nei momenti difficili. Per farlo occorre superare la rassegnazione che nulla possa cambiare. "Immota manet", è vero; ma se lo colleghiamo al "PHS" del nostro stemma, nell'interpretazione che a me piace secondo la quale l'acronimo sta per "Publica hic salus", allora il concetto diventa: "Restiamo fermi a difesa della salute pubblica". Fermi e uniti e, forse, possiamo farcela. Quanto a colpe e responsabilità, che ci sono forse anche tra chi (noi giornalisti) non ha fatto abbastanza, vanno certo ricercate ed analizzate ma solo per guardare avanti, non per fare prigionieri. La "guerra" per sopravvivere e cercare di vivere meglio deve essere fatta semmai contro gli altri, non tra di noi».

D.: Si dice che Angelo De Nicola sia lucidamente e razionalmente intenzionato a dire la sua e a dare una mano per aiutare la città. Naturalmente, in politica. Che c'è di vero?
R.: «Più vero che falso. Ma più che dare una mano, vorrei mettermi a disposizione della mia città per aggregare quei cittadini perbene (tanti), quei cittadini con gli attributi (tanti) e che si sono rotti gli attributi (tantissimi) ma che non hanno il coraggio di esporsi. Unire, non dividere. Mediare, non spaccare. Per far questo, con altri, ho dato vita ad un "movimento" che abbiamo chiamato "l'Aquila Città Unita" (uniti soprattutto tra di noi) che sta cercando di crescere e di avere un suo peso soprattutto di progettualità. Sono ottimista: l'Aquila ce la può fare. Almeno vale la pena tentare: io sono disponibile. E non dico, come molti fanno, che "me lo chiedono, mi implorano!". Lucidamente e razionalmente ho ipotizzato un progetto e sono pronto a rischiare fino in fondo. E siccome la morale una è, da un mese e mezzo mi sono dichiaratamente autosospeso dal trattare l'argomento della politica cittadina sulla pagina del mio giornale.

D.: Se è vero, accanto a chi? Ci saranno pure cervelli e potenti pronti a dare un impulso, un contributo? Penso ai pochi che contano e possono: davvero pochi...
R.: «I movimenti e le liste civiche, storicamente, non hanno mai avuto successo nella nostra città. Basti ricordare la grande occasione perduta con l'avvocato Attilio Cecchini candidato sindaco nel 1994, un gigante (morale, professionale, intellettuale) rispetto alla mia modesta persona. Sicchè è necessario un progetto politico. Un progetto nuovo, fresco, moderato e che soprattutto dia spazio ai giovani che, dopo l'esperienza dei padri, si misurino finalmente con la gestione della loro città».

D.: Hai sicuramente già aiutato la città con le tue iniziative editoriali, gestite con capacità e intelligenza anche manageriale. E con il tuo giornale, Il Messaggero. Altri direbbero: "Ho già dato".
R.: «Cosa ho fatto se non il mio dovere di cittadino? Potevo fare qualcosa, spero di buono, ebbene l'ho fatta. Potevo dare un contributo alla Perdonanza, organizzando dei tour gratuiti sui luoghi del mio romanzo, ebbene l'ho fatto collaborando, e ne sono orgoglioso, a titolo gratuito. Potevo raccogliere fondi per la "Missione" africana intitolata a Celestino V, ebbene l'ho fatto. Potevo diffondere la valenza della Perdonanza (per la quale, ahimè, abbiamo dato scandalo) esaltata nei miei due romanzi, ebbene l'ho fatto in una trentina, finora, di conferenze in giro per l'Italia. Potevo creare un sito Internet tutto sbilanciato sulla città, ebbene l'ho fatto. Ho "dato", nel mio piccolo, solo quello che dovevo dare. Immaginate se ogni cittadino, nel suo piccolo, facesse lo stesso! Se tutti pulissero i dieci metri davanti alla propria abitazione, la città sarebbe uno specchio. Immaginate se questo metodo fosse fatto proprio da tutti gli amministratori pubblici! Sì, un sogno. A me piace sognare. A quarant’anni devo sognare».

D.: Parlano di un sindaco ormai disincantato, quasi annoiato, distratto. Sarà vero? Vedi Tempesta in questa situazione psicologica? Gli somiglia il ritratto tracciato di recente da Giustino Masciocco?
R.: «Nove anni sulla tolda di una nave, peraltro in acque mai tranquille, sfiancherebbero la fibra psicologica di qualsiasi capitano. Tempesta ha avuto l'occasione di una sua uscita onorevole quando, l'anno scorso, per due volte si è dimesso per candidarsi alla Camera in base alla considerazione, opinabile ma comunque dettata da motivazioni politiche, "l'Aquila non era ben rappresentata in Parlamento". Dopo che il suo partito, Forza Italia, ha tagliato la faccia a lui ed alla città capoluogo (e il centrodestra, col suo silenzio, ha sancito la sua fine), Tempesta non ha scelto la strada dell'uscita di sicurezza dignitosa ma del rientro con la coda tra le gambe: il viale del tramonto, inevitabile per chiunque, è duro da percorrere».

D.: E' un luogo comune dire: destra e sinistra si somigliano. Fanno e dicono cose simili. Non è che per certi malati, la medicina da prescrivere è comunque una sola?
R.: «l'ho già detto e lo ripeto: nella situazione, grave, in cui versa la nostra città non è questione di destra (i nove anni dell'amministrazione Tempesta sono sotto gli occhi di tutti) e di sinistra (incapace, dopo nove anni, di fare un progetto dando vita solo ad un inspiegabile gioco di equilibri di potere) ma di questi partiti che non riescono a dare risposte anche perché tengono fuori le energie vive. La "medicina" è un progetto nuovo, fresco, condiviso, unitario con dentro persone di centrodestra e di centrosinistra purchè siano perbene e decise a volare alto. In una parola: tignose. Un progetto "trasversale" ma nel senso buono del termine».

D.: Hai scelto un giornalismo moderato, misurato, anche se talvolta "spari" dei corsivi acuminati. Te lo chiedono direttori e capi redattori, o è una scelta personale?
R.: «Non ho mai avuto pressioni, indicazioni o "consigli" per scrivere questo o quello. Se ho sbagliato, è colpa mia. Se ho indovinato è merito mio. E per sbagliare il meno possibile, occorre studiare: mettersi sempre in discussione».

D.: Ti distingui per essere un signore della penna, non immemore di persone e firme del passato. Sai che nel nostro mestiere si tende a impugnare il badile per seppellire chi è ancora vivo. Carattere, o lucida decisione?
R.: «Con l'esperienza capisci che il badile può fare danni anche al cadavere da seppellire. Signore della penna? Mi piacerebbe, a fine carriera, poter essere ricordato così: quest’arma, la penna, è capace di uccidere le persone. Se lo si fa intenzionalmente è omicidio».

D.: l'ultimo pensiero la notte, prima di dormire. E magari anche un desiderio di sogno telecomandato...
R.: «La notte, a tarda ora per le mai troppe buone letture ed al termine di giornate affannate, non faccio in tempo a chiudere gli occhi che crollo. Il penultimo pensiero, sempre, è per mia figlia, Camilla. Ha dieci anni e due occhioni così. Mi chiedo, ogni notte, tutte le notti, se io e mia moglie abbiamo fatto il nostro dovere con lei. Se le scelte adottate sono le migliori per lei. Se la stiamo aiutando a crescere sana. Se, soprattutto, questa è la società in cui vogliamo che cresca. Da un po’ mi rispondo che forse posso darle di meglio. E a me piace sognare».




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