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2003 - CONFESSIONI DI UN IMPOLITICO

Da Tragnone a Fidel Castro

"Da Tragnone a Fidel Castro"
1992-2003: gli Eventi che Sconvolsero L'Aquila

Un Libro di Angelo De Nicola


Indice Capitoli

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2003
L'avvocato Attilio Cecchini intervista, nel 1956, Juan Domingo Peron (a sinistra) a Caracas, in Venezuela, dove questi era in esilio prima di riprendere il potere in Argentina.



Da Tragnone a Fidel Castro
25 gennaio 2003, Conversione di San Paolo

Mentre l'auto si inerpicava sui tornanti di quella strada maledetta, mi tornava in mente quando passai di lì in quei giorni di fine agosto di tredici anni prima. Era la mattina del 24 agosto del 1990, in una città ancora in ferie nell'attesa dell'esplodere della Perdonanza. Il caso volle che fossi da solo in redazione quando la telescrivente battè un "lancio" della agenzia Ansa:

Una bambina di sette anni, Cristina Capoccitti, scomparsa ieri dalla sua abitazione nei pressi di Balsorano, è stata ritrovata morta questa mattina poco dopo le 7 dai carabinieri. Secondo i risultati delle prime indagini, la bambina sarebbe morta a causa delle violenze subite. Il cadavere, scoperto da un'unità cinofila, era in fondo ad una scarpata in campagna. (1)

Non c'erano ancora i cellulari. Non riuscii a rintracciare nessuno (sembra un fatto della preistoria) se non l'allora caporedattore del servizio "Regioni" della redazione centrale del Messaggero, a Roma, Lanfranco Rossi. "Mi sembra grossa. Io parto. Sono già le 10" gli dissi nella considerazione che ci sarebbero volute quasi due ore d'auto per arrivare a Balsorano (non c'era nemmeno la superstrada del Liri) e mai immaginando che mi infilavo nel tunnel di una vicenda lunga tredici anni che avrebbe segnato la mia vita, non solo professionale. Sulla fotocopia del dispaccio dell'agenzia, che lasciai sulla scrivania del Capo, scrissi: "Sto andando. Mi faccio sentire al più presto possibile".

Quasi tredici anni dopo, il 25 gennaio 2003, tornavo sul luogo del delitto per i funerali di Michele Perruzza, "il mostro di Balsorano" morto d'infarto in carcere gridando la sua innocenza. "Guardate, ci sono ancora le scritte contro Michele e soprattutto contro sua moglie" dissi, fermando l'auto davanti ad un muro di contenimento lungo la strada, ai miei due compagni di viaggio, il fotoreporter Renato Vitturini e la collega Alessandra Cococcetta. A quest'ultima fui io che chiesi, chissà poi perché, se le andava di accompagnarmi. Non se lo fece ripetere due volte. Finì per prendersi il cinico sberleffo di qualche collega ("Ecco quella dei funerali!") ma in compenso poté prendere parte a quella che da molti è stata definita come "la più incredibile delle conclusioni di una tragedia greca che nessun drammaturgo avrebbe potuto inventare".

Sul sagrato della piccola chiesetta della frazione di Ridotti, la stessa in cui era stato dato l'addio alla minuscola bara bianca della piccola Cristina, trovai lui, "don Attilio". Senza scambiarci una parola, mi prese sotto braccio e ci mettemmo a passeggiare. Sotto e sopra, sotto e sopra lungo il perimetro del sagrato. In silenzio. Entrambi, forse, ripensavamo a quella "spensierata" serata che, nell'aprile del 1991, passammo insieme in quel caratteristico ristorante che, per un troppo breve periodo, l'ex assessore comunale Carlo Iannini ed i suoi figli avevano aperto nel centro storico dell'Aquila. L'avvocato Attilio Cecchini mi aveva fatto l'onore di chiedermi un incontro. Doveva, infatti, decidere se accettare o meno la difesa nello scabroso caso del "mostro di Balsorano" già condannato in primo grado all'ergastolo per l'omicidio della nipotina di 7 anni. Poiché l'avvocato aveva letto sul giornale i miei servizi sulla vicenda, "ed in considerazione- mi disse- della profonda stima che nutro per te", voleva farsi un'idea complessiva della vicenda nei suoi particolari e, soprattutto, nei suoi retroscena. Fu una lunghissima chiacchierata culminata, come nelle scene madri che si rispettino, tra i fumi di un profumato "Habana" ed i sorsi di un ottimo whisky di torba tirati fuori da Iannini nelle vesti di impeccabile maître. Rivelerà pubblicamente Cecchini, nel corso della presentazione del mio libro sul caso Perruzza, il 18 giugno 2003, che fu proprio quell'incontro a fargli decidere, definitivamente, di accettare la difesa del muratore di Balsorano. Una vicenda che rappresenterà tutto per "don Attilio", come dimostrerà quella sua mano tremante sulla bara di Michele, al termine delle esequie, quando in lacrime dirà:

"Sulla tua tomba vorrei scrivere: Michele Perruzza ergastolano innocente, simbolo di una giustizia ingiusta". (2)

Una vicenda che è una sorta di sintesi della vita di Cecchini, la cui esistenza è stata sempre dalla parte del diritto. E dei deboli. Così mi rispose l'avvocato Cecchini in un'intervista nel febbraio del 1998, quando il Tribunale di Sulmona riapre il "caso Perruzza" che sembra destinato a subire il "processo di revisione", poi negato nel 2001 dalla Corte d'Appello di Campobasso:

"Il sistema deve avere il coraggio di ammettere l'errore giudiziario che, d'altra parte, è connaturato al processo penale che è un procedimento lungo, fatto dagli uomini che, appunto, sbagliano. Michele Perruzza, un innocente condannato all'ergastolo, non chiede vendette. Chiede che la giustizia, dal suo interno, ammettendo l'errore, faccia giustizia".

L'avvocato Attilio Cecchini, leader del collegio difensivo che assiste (gratis ed autotassandosi) "il mostro", scandisce le parole con gli occhi socchiusi seduto sulla poltrona del salotto della sua casa nel centro dell'Aquila dove sta lottando contro l'influenza. Strano destino il suo. Da giovane, in Venezuela, combatté, come giornalista, per difendere gli oppressi. Oggi, al culmine di una carriera di avvocato che gli ha garantito il titolo di "maestro", combatte per difendere dall'ergastolo un muratore di Balsorano: "Salvare Perruzza ormai è la sua vita" dicono di lui i colleghi e gli amici.

Domanda. Avvocato, davvero il caso Perruzza è diventata la sua vita?
Risposta. Sì. È una battaglia di civiltà.

D. Lei dice di essere sicuro dell'innocenza del muratore. Quando se ne è convinto?
R. Il collega e amico Mario Maccallini, padre del mio co- difensore Carlo, quando a principio assisteva Perruzza mi parlò del caso e della sua convinzione che l'autore del delitto fosse il figlio di Perruzza. Mi incuriosii, ma la cosa finì lì. Anni dopo, furono gli stessi avvocati Maccallini ad avvertirmi che Perruzza aveva intenzione di nominarmi difensore insieme con il collega romano Antonio De Vita. Non volevo accettare.

D. Perché?
R. Mi ripugnava difendere "il mostro di Balsorano", ovvero una persona accusata e condannata in primo grado all'ergastolo per un reato così turpe. Chiesi tempo. Per un mese feci uno studio profondo degli atti. E più andavo avanti e più mi sorprendevo e mi insospettivo che la situazione, sia nelle indagini che nel processo, fosse stata forzata. Che si fosse, in sostanza, scatenata una sorta di caccia alle streghe contro Michele. Alla fine, accettai.

D. S'era, dunque, convinto della innocenza di Perruzza?
R. Non ancora. Avevo però intravisto quegli spiragli di dubbio che impongono ad un avvocato di battersi. Dubbi che mi venivano tutti dalla ricostruzione di quella maledetta notte tra il 26 ed il 27 agosto 1990. La verità è tutta in quella notte: nel tardo pomeriggio, l'allora capo della Squadra mobile dell'Aquila, Pasqualino Cerasoli, al quale va dato atto di una grande intuizione, capì che Mauro aveva come voglia di parlare. Il ragazzo fu accompagnato alla caserma di Balsorano dove rese piena confessione. Il magistrato disse: il caso è chiuso. Sottratto il ragazzo al linciaggio della folla, lo si portò ad Avezzano, negli uffici della Procura, per "consegnarlo" al magistrato minorile diventato competente. Ma il ragazzo cambia versione ed accusa il padre. Eccolo lo snodo di tutta la vicenda.

D. Lo snodo?
R. Perché si decide di concentrare le indagini tutte su Michele chiudendo di fatto l'indagine che la magistratura minorile poteva portare avanti, autonomamente? Perché ci si è accontentati della "deduzione" di un ragazzo di tredici anni che pure aveva reso piena confessione, terrorizzato dalla minaccia addirittura di essere lapidato dalla folla? Perché non s'è voluta sondare questa strada alternativa, parallelamente, arrivando all'archiviazione del procedimento contro Mauro soltanto sulla base delle risultanze dell'inchiesta contro il padre? Perché? Perdiana, perché? Ecco il peccato originale del caso Perruzza.

D. Sì, ma quando s'è convinto dell'innocenza di Michele?
R. Accettato l'incarico, col collega De Vita decidemmo di andare in carcere "a conoscere questo mostro". Lungo il viaggio per raggiungere il carcere di Spoleto, fatta la conoscenza dello squisito collega De Vita, ci scambiammo le nostre opinioni. Lui era riuscito a far assolvere il famoso portiere Pietrino Vanacore accusato del delitto di via Poma ed era diventato un superesperto sul Dna. De Vita insisteva sulla inconsistenza delle perizie di primo grado. Entrammo nel corridoio del parlatorio. Ci venne incontro un ometto sventolando le sue mani per aria: "Queste mani- ci disse- non hanno ucciso Cristina. Io ho le mani piccole. Non posso essere stato io". Questa scena mi torna spesso in mente nelle mie notti insonni e, tutt'oggi, mi viene il magone nel raccontarla.

D. Una semplice frase per convincerla. Un po' poco...
R. Non una frase, ma un atteggiamento che ha finito col provocare anche un duro scontro con Perruzza del quale, oggi, debbo chiedergli scusa. Lui ha sempre detto di non essere stato. Non ha mai voluto accusare il figlio. In una pausa del processo di secondo grado persi le staffe ed alzai la voce contro di lui: "Lo vede, è stato suo figlio, signor Perruzza parli". Mi rispose imperturbabile: "Non accuserò mai il sangue del mio sangue. Io non sono stato, ma nemmeno ho visto Mauro uccidere Cristina".

D. Di fronte a questo coerente atteggiamento di Michele, come si spiega lei questo accanimento contro di lui? Come si spiega lei i fuochi d'artificio nel suo paese, a Case Castella di Balsorano, dopo la condanna all'ergastolo in primo grado?
R. Quei fuochi d'artificio, come in un rito dal sapore ancestrale, rappresentano la liberazione di un borgo che s'è sentito macchiato, violentato nell'onore. Un concetto non evoluto, non modernizzato, di onore dentro una comunità del profondo sud per la promiscuità del sangue, le faide tra le famiglie, il vivere chiuso, riservati. Ecco: un mondo medioevale. Bisognava "oggettivare" questa vicenda. Bisognava guardarla, per capirla, con un altro paio di occhiali. Fin dall'inizio.

D. È troppo tardi per "oggettivare" la vicenda?
R. Forse no. Ma solo se la Giustizia ed i suoi Palazzi vorranno ammettere di aver inforcato gli occhiali sbagliati. (3)

* * * *

L'irriducibile voglia di verità e di giustizia. Caratteristiche del Dna di "don Attilio" che avevano fatto colpo anche su Gabriel García Márquez. Il grande scrittore sudamericano conobbe Cecchini a Caracas in Venezuela dove il giovanissimo avvocato era emigrato negli anni Cinquanta insieme con il suo amico e concittadino Gaetano Bafile (che, poi, a Caracas ci è rimasto) per fondare il giornale "La Voce d'Italia", un battagliero foglio che si schierò sempre a difesa dei diritti dei bistrattati emigranti italiani. Correndo enormi pericoli, sotto la dittatura di Marcos Perez Jimenez, i due portano avanti rilevanti battaglie civili. Tra le tante anche un'inchiesta giornalistica sulla misteriosa sparizione ("se desaparece") di sette italiani, sette siciliani. "Questi occhi videro sette siciliani morti" s'intitola il capitolo del libro "Un giornalista felice e sconosciuto" (4) di García Márquez nel quale il futuro premio Nobel per la letteratura (1982) raccolse i primi scritti, soprattutto di giornalista in giro per il Sud America. Scrive García Márquez:

Nell'angusto e disordinato ufficio che in quel tempo serviva da redazione, direzione ed amministrazione a "La Voce d'Italia", uno dei giornali in lingua italiana che escono a Caracas, il direttore Attilio M. Cecchini, un giornalista che sembra piuttosto, grazie al suo fisico, un rubacuori del cinema italiano, prese a cura personalmente la misteriosa scomparsa dei suoi sette compatrioti. Dopo una riunione non ufficiale col suo capo di redazione, Gaetano Bafile, decise di indagare a fondo per conto del giornale e senza ricorrere alla polizia, finché non avesse scoperto la verità. Con l'ostinato e minuzioso metodo del giornalista italiano, che è capace di montare un tremendo scandalo partendo da un cadavere modesto come quello di Wilma Montesi, ma che in ogni caso riesce ad arrivare sempre prima dei detectives al nodo del problema, Bafile dedicò parecchie settimane a seguire, passo passo, le ultime piste percorse a Caracas dai sette compatrioti scomparsi. Ma nel 1955, con la città controllata dai 5.000 occhi di Pedro Estrada, le conclusioni a cui giunse il giornalista erano un biglietto senza ritorno verso la morte. Un funzionario di polizia, che si accorse dei progressi di Bafile nelle indagini, lo prevenne cordialmente: "Non cammini sulla dinamite". (5)

In quella Caracas, Cecchini mise a repentaglio la vita inseguendo strenuamente la difesa degli oppressi. E rischiò tantissimo anche per le sue corrispondenze scritte, sotto tre pseudonimi (Giuseppe C. Menotti, Antonio Rios e Diego Solerti), per l'allora popolarissimo ed autorevole quotidiano italiano "Paese sera" (diretto all'epoca da Fausto Coen) che seguiva con puntualità e precisione anche i fatti del Sud America e del Venezuela, soprattutto in relazione ai risvolti di questi in Italia. Un giorno, in un ricevimento dell'ambasciata italiana a Caracas nella quale Cecchini e Bafile erano diventati di casa, l'ambasciatore Renato Bova Scoppa disse cordialmente a "don Attilio": "Se lei, per caso, conosce quel Menotti, gli dica di stare molto attento".

Quelle infuocate corrispondenze dall'America Latina piacquero così tanto a "Paese sera" che, una volta tornato in Italia nel 1960, a Cecchini venne pressantemente offerto di lavorare, a tempo pieno, come giornalista in quel prestigioso quotidiano. Ma Cecchini tornò al suo primo amore, l'avvocatura. Di certo dovette avere un qualche peso nella sua scelta anche il fatto che, quando tornò definitivamente in patria, "don Attilio" presentò per la pubblicazione alcuni reportage sui principali paesi sudamericani che aveva visitati nell'ultimo viaggio prima di imbarcarsi avventurosamente dalla Giamaica dopo che da Cuba gli americani gli avevano rifiutato il visto per gli Stati Uniti in quanto persona "indesiderata" essendo stato egli un aperto sostenitore della rivoluzione castrista. Peraltro Cecchini "sfiorò" l'intervista a Fidel Castro: la brusca partenza, accelerata forse anche per evitare ulteriori guai, gli fece perdere l'appuntamento già fissato col "lider maximo". Non si fece, invece, sfuggire l'intervista con Juan Domingo Peron durante l'esilio di questi in Venezuela prima di riprendere il potere in Argentina.

Ebbene, presentati i cinque lunghi articoli di un reportage intitolato "Un raid nel Mar dei Caraibi", la direzione di "Paese sera" gli frappose alcuni tagli e "limature", soprattutto lì dove Cecchini si dimostrava critico con la politica, cosiddetta della "Nuova frontiera", di John F. Kennedy nei confronti dell'America Latina. Una politica che, invece, in Italia stava in quegli anni suscitando entusiasmi soprattutto nel Pci. Cecchini si riprese, sdegnato, quei cinque reportage scritti a macchina su carta povera che non ebbero la fortuna di essere pubblicati. Ecco quello su Cuba:

L'AVANA, febbraio- A "Rancho Boyeros" si atterra tra le palme, verticali e vibranti come corde di chitarra, come le mulatte di Camaguey nei versi di Nicolàs Guillèn. Una grande scritta annuncia: "Cuba Territorio Libre de America". È la prima di mille altre consegne che, sparse dovunque, rivelano la integrale mobilitazione dell'isola in difesa della sua Rivoluzione. Una mobilitazione che non ha perso nulla in mordente, a distanza di due anni dalla ingloriosa fuga di Fulgencio Batista.

L'andatura di questi ottocento giorni è stata tale da spezzare la tempra di chiunque; ciò che si è fatto in tanto breve periodo ha dell'incredibile. Soltanto l'abitudine al transfert del patimento nel ballo e nel canto, tanto congeniale al popolo cubano, la sua disinvoltura, la sua tropicale ebbrezza spinta all'estenuazione ed allo stordimento, l'estro, lo slancio ed insieme la esasperante carica di "souplesse" di cui è capace, hanno evidentemente reso possibile il miracolo di questi ottocento giorni.

A vederli, per intere notti di "pachanga", modulare i fianchi, le "sonoras caderas" come dice il poeta negro, in morbide e lunghissime danze o immedesimarsi in canti che ripetono all'infinito lo stesso motivo e le stesse parole, si intuisce subito che la Rivoluzione è un fatto al quale partecipano con uguale diritto la Sierra Maestra e Perez Prado, il Tropicana e Fidel Castro Ruz, maracas e bombe a mano.

La Rivoluzione è una temperie di politica, sport e kermesse insieme; è una coniugazione di piazza, arena e trincea, che ne costituisce la sintassi segreta. Diversamente non si spiegherebbe il sensazionale successo dei primi due anni del regime verdeoliva, a novanta miglia dalle coste dell'impero yankee, e per di più accerchiato da nemici implacabili quali sono i governi del Venezuela, della Colombia e dell'America caraibica.

La tattica castrista ha adottato come arma il contrattacco, fulmineo sempre, infallibile. Nel duello con gli Usa, Cuba ha segnato in contropiede, assicurandosi una serie di "innings" spettacolari ed entusiasmanti.

L'isola oggi è Fidel; e Fidel è passione, tifo, "fiesta". Ognuno conversando o discutendo si riferisce a lui con un "Fidel ha detto". Circola un'aria di simpatia, fiducia, partecipazione nei confronti della cosa pubblica e della nuova maniera di amministrarla, da neutralizzare ogni dubbio sul fatto che la Rivoluzione possa essere una realtà di tutta Cuba, una situazione totale. Fuori dell'isola sarebbe forse impossibile capire un Fidel Castro che parla, improvvisando, per ore ed ore, sul video o dalla tribuna; sarebbe impossibile capire un milione di contadini che invade l'Avana simbolicamente armato di "machete" bivaccando fin nei giardini del Campidoglio, o un milione di abaneri che si dà appuntamento sulla Sierra Maestra per festeggiare la ricorrenza del 26 luglio.

Sono queste le premesse e le condizioni dei colpi di maglio che il popolo ha assestato l'uno dopo l'altro alla struttura economico- sociale di Cuba: la nazionalizzazione delle tre raffinerie anglo- americano- olandesi; l'espropriazione dei feudi stranieri, industriali e commerciali, comprese le banche; la Riforma Agraria; la Riforma Urbana.

Quattro stadi fondamentali nel processo rivoluzionario dell'isola, altrettanti interventi chirurgici che ne hanno riattivato le funzioni essenziali e che consentiranno al paese di svilupparsi in senso progressista e moderno.

Fidel Castro lo ha solennemente annunciato: oggi comincia la seconda tappa della Rivoluzione. Una tappa più lenta e meditata, nel corso della quale le decisioni non verranno imposte dalla necessità urgente di fare presto, di stroncare le possibilità di recupero delle forze sconfitte e di consolidare la vittoria. Una tappa che servirà a correggere i possibili errori, motivati dalla reazione dell'imperialismo ferito, e riparare inevitabili torti, ma soprattutto a costruire la patria di domani.

Ecco la consegna del leader all'alba del 1961. Cuba non dovrà contare un disoccupato o un analfabeta nel giro del prossimo biennio. La riforma agraria verrà portata a termine attraverso la ripartizione dei latifondi e la intensificazione della cooperazione rurale. Sull'impero della "United Fruit", che dominava mille chilometri quadrati di suolo cubano, è stata collocata una pietra tombale. Se ieri l'uno per cento dei proprietari possedeva esattamente la metà dell'isola mentre una decima parte era ripartita tra il settanta per cento di essi; simile mortificante ingiustizia sarà presto sanata.

Mezzo milione di famiglie sono finora vissute in stamberghe e "bohios", miserande capanne di legno e paglia, consentendo che della crisi degli alloggi beneficiasse un pugno di signori. Ai soli Sarrà appartenevano dodicimila appartamenti.

La Rivoluzione con un colpo di spugna ha cancellato questa vergogna. Per conto dei proprietari espropriati, da oggi lo Stato riscuoterà gli affitti e li girerà a ciascuno di loro fino ad un massimo di seicento dollari mensili e per un periodo di anni fissato dalla legge sulla base dell'anzianità di costruzione di ogni singolo immobile. Dopo di che l'inquilino cesserà di corrispondere il canone, in quanto viene già considerato proprietario a riscatto della casa che abita.

A tutto ciò si aggiunga il proposito del governo di accelerare la industrializzazione dell'isola.

Da tempo i monopoli stranieri hanno fatto le valige. Kennedy non può non prenderne atto. Le classi privilegiate battono ormai in ritirata. Le ultime loro resistenze si annidano negli istituti privati del Vedado e negli ermetici club lungo il Malecòn, ove cresceva una gioventù dorata e dove si insegnava razzismo "criollo" e si praticavano il disprezzo per la gente di colore, il culto del dollaro e l'hobby di mettere al guinzaglio "muchachas bonitas".

Fu Josè Martì, il martire dell'indipendenza cubana, dalla tempra guerriera d'un Garibaldi e dal fervore apostolico d'un Mazzini, a dire: "Urge molto eroismo per riscattare molto crimine. Ove si è stati assai vili, bisogna diventare assai grandi. I popoli vivono unicamente nell'impeto eroico".

Mi torna alla mente il vaticinio di Martì, al quale Cuba sta facendo onore, in volo sul teatro della leggendaria guerriglia.

Proprio così, questo aspro nodo montagnoso non è soltanto la Sierra Maestra; esso è diventata la spina dorsale d'America. (6)

* * * *

Cecchini, dunque, ritorna all'Aquila. Per fare l'avvocato. Ritorna perché "don Attilio" aveva cominciato giovanissimo (dopo essersi laureato a 22 anni presso l'Università di Roma) l'attività forense aprendo un suo studio dopo la pratica in quello del grande penalista Carlo Rossi, padre di colui che sarà poi uno dei suoi allievi, Stefano. E Cecchini non aveva mancato di farsi subito notare nel foro aquilano. Come quando presentò un ricorso in Cassazione sul quale si levarono parecchie voci e critiche sull'"ardire di uno sbarbatello". L'avvocato Angelo Colagrande Sr., mostro sacro del foro cittadino in quegli anni all'apice del prestigio, gli chiese copia di quel ricorso. Dopo qualche giorno gli rispose con un biglietto:

Caro Cecchini, ho letto il ricorso; e mi compiaccio vivamente con lei, tanto per la precisione dei concetti giuridici, quanto per la tecnica dell'esposizione. Se non fosse per quella libertà di formulazione dei principi, che per un ricorso redatto da un giovanissimo come lei, è un indiscutibile pregio, direi che è redatto da un vecchio "cassazionista". Bravo! Mi abbia, con sentita cordialità. (7)

Cotanta "benedizione" ebbe l'effetto di azzittire tutte le voci nel foro.

* * * *

Domanda. Dunque, con la concreta prospettiva di una bella carriera, espressione di famiglia borghese benestante, inserito nella vita pubblica cittadina come segretario dei Giovani liberali, perché il già avvocato Attilio Cecchini, classe 1925, emigra in Venezuela, a 25 anni?
Risposta. Volevo la libertà. Volevo conoscere cosa c'era la di là delle Alpi. Volevo evadere. Volevo "conquistare" il mondo. Aspirazioni che vanno rapportate al periodo, ad un'Italia che sta ricostruendo se stessa sulle macerie lasciate dalla guerra. Avevo vissuto da protagonista la Resistenza, attivista del Comitato di Liberazione agli ordini del colonnello Manlio Santini, un grande aquilano dimenticato, militando nella Democrazia liberale poi diventata Pli e partecipando ad azioni di spionaggio e sabotaggio. Mi dedicavo anche al giornalismo occupandomi in particolare, a volte per intero, del foglio "Abruzzo Liberale". Avevo tutto. Ero libero. Ma volevo la libertà.

D. E la cercò nel Venezuela del dittatore Jimenez...
R. Con l'amico fraterno Gaetano Bafile, che mi precedé di un anno a Caracas preparando il terreno, la scelta fu precisa: volevamo fondare un giornale nell'America Latina. Una scelta sulla carta, fatta nel mio studio, a tavolino: il Venezuela, il paese più affine alla nostra cultura, il sogno degli emigranti di quegli anni. Era l'agosto del 1950. Chiusi lo studio ed abbandonai la città senza avvertire nessuno.

D. Il suo sogno si chiamava "La Voce d'Italia"...
R. Il sogno di un giornale antifascista in un paese che viveva un rigurgito fascista non soltanto perché era sotto una dittatura ma soprattutto perché qui si rifugiarono, dopo la sconfitta bellica, molti di quegli imprenditori italiani, legati al fascismo, che avevano fatto investimenti in Africa. Il Venezuela, in quegli anni, stava vivendo una svolta decisamente fascista nella quale si riconosceva la vecchia guardia degli immigrati italiani, la cui comunità contava molto perché assai organizzata e solidale. A Caracas si continuavano a festeggiare ancora tutte le ricorrenze mussoliniane ed in camicia nera. I vecchi emigrati si andavano saldando con gli imprenditori "africanisti" che si rifugiavano in Venezuela in un patto scellerato per sfruttare i nuovi emigrati, per lo più antifascisti, come manodopera a basso costo. Così a basso costo da suscitare la rabbia dei sindacati venezuelani per la concorrenza, ritenuta sleale, nei confronti dei lavoratori autoctoni che già non se la passavano benissimo. Ecco, "La Voce d'Italia" si schierò subito dalla parte degli oppressi, di quegli italiani che mangiavano soltanto banane e Coca- cola, anzi Pepsi- cola ("Camburos y Pepsicola"), ossia gli unici alimenti a basso costo, e che vivevano di stenti pur di rimettere in Italia valuta, a quei tempi, pregiata. Quegli emigranti che, una volta sbarcati nella "terra promessa", venivano tenuti per due settimane nel campo di concentramento di Sarrìa, dopo avventurosi viaggi a bordo di vere e proprie carrette del mare. Ricordo che, in uno dei miei viaggi, la "Franca C." su cui eravamo imbarcati, andò alla deriva per due giorni nell'oceano dopo la rottura del motore. D'altra parte nel 1950 sbarcai a Caracas dal "Portugal" che compiva il suo ultimo viaggio.

D. Il Venezuela era, quindi, un falso Eldorado per gli emigranti italiani?
R. Esattamente. Noi ci battemmo contro l'immigrazione di massa di quegli anni che l'Italia, al contrario, favoriva da un lato come una sorta di ammortizzatore sociale, poiché toglieva bocche da sfamare in patria, e dall'altro perché quei poveri disgraziati (che spesso, come per esempio il nostro strillone che veniva dalla Campania, avevano per casa la carcassa di una vecchia auto americana in disuso), rimettevano in Italia valuta pregiata. Perciò noi denunciavamo e raccontavamo sul giornale che non era così. Non era un eldorado.

D. Di questi sentimenti erano impregnate anche le corrispondenze di Giuseppe C. Menotti, Antonio Rios e Diego Solerti...
R. Esplodendo in Italia, queste corrispondenze davano un enorme fastidio sia al governo venezuelano che a quello italiano. Tacciarono quegli articoli di aver fatto decrescere l'immigrazione nel mentre l'Italia faceva la corte al regime di Jimenez visto che ne traeva enormi benefici con grandi commesse come la siderurgia all'Orinoco, la fornitura di incrociatori per la Marina venezuelana, opere ciclopiche come il ponte sul lago di Maracaibo. Mi rendo conto che ho corso un pericolo enorme. Perciò non avevo detto nulla a nessuno. Solo mia moglie Livia sapeva. Quando Gaetano Bafile, anni dopo, lo venne a sapere, se la prese perché nemmeno a lui avevo detto nulla. E come potevo coinvolgerlo in quel rischio mortale?

D. Un sogno, fu per lei, anche la rivoluzione di Fidel Castro?
R. Sì. Ma il combattente Castro della Sierra Maestra, non il successivo dittatore comunista. Avevamo idealizzato quella rivoluzione, era diventata per noi un mito, così come lo erano diventati quei giovanissimi come Fidel Castro, che ha la mia stessa età, e Che Guevara. Rivoluzionari puri alla Garibaldi, alla Mazzini che volevano riscattare l'onore di Cuba diventata il letamaio degli Stati Uniti. Fu una rivoluzione affascinante che sostenemmo quando Manuel Urrutia, presidente di "Cuba en Armas", venne a Caracas per raccogliere fondi per sostenere i ribelli castristi.

D. Nel 1958 cade il regime di Jemenez...
R. E furono ancora una volta gli italiani a rischiare moltissimo. Non sono immodesto se affermo che grazie agli ottimi rapporti che io e Gaetano avevamo anche con il futuro uomo di governo, il comunista Jesus Farias, si evitarono carneficine, soprattutto per quelle vendette che ci si voleva prendere nei confronti della manodopera a basso costo degli emigranti italiani che avevano tolto il pane sotto ai denti a molti venezuelani.

D. Nel 1960 lei decide di rientrare in Italia. È finito il sogno?
R. Un anno e mezzo prima, nel 1958, perdetti mia sorella, l'adorata Maria. Dopo avermi seguito a Caracas, lavorava come segretaria di banca. Nel suo ufficio, durante gli scontri dei focolai post liberazione, fu colpita da un proiettile vagante che penetrò dal vetro della finestra e la colpì al cuore. Per me fu un disastro. Mi crollò il mondo addosso. Mi orientai per il rientro.

D. Si ricomincia da capo. Riapre lo studio legale Cecchini...
R. Ricordo ancora la prima scampanellata: era l'imprenditore Valentino Spaziani che era stato mio cliente dieci anni prima. Come se nulla fosse accaduto, bussò alla mia porta affidandomi le sue cause: "Bentornato" mi disse.

D. L'avvocato Cecchini, nel frattempo, diventa "don Attilio". E diventa anche il personaggio-chiave di quest'ultimo decennio che ha sconvolto L'Aquila. È l'avvocato che ha smontato il "teorema Tragnone" nello Scandalo Pop; è l'"uomo nuovo" che nel 1994 si candida a sindaco (e perde) nel dopo rivoluzione di "Mani pulite" contro il comunista Antonio Centi; è il "padre" professionale dell'attuale sindaco-avvocato Biagio Tempesta nonché il difensore di quest'ultimo nel processo per l'impianto dei rifiuti; è l'avvocato che entra in guerra col "Palazzo" per difendere un principio, l'innocenza di un "povero cristiano di nome Michele Perruzza". Cominciamo dallo Scandalo Pop.
R. Fui svegliato anche io quella notte, la notte di San Michele, dai familiari di Peppino Lettere. E da principio, dal primo interrogatorio, mi sono subito reso conto che si trattava di accuse basate su una mera ipotesi, su un teorema. Quello che, nato con l'intento di scardinare un sistema come stava avvenendo a Milano, si basava su una sorta di endiadi tra la corruzione e la concussione, fattispecie che invece andavano riseparate nettamente. Un teorema che sfruttava il cosiddetto "rito ambrosiano": prima ti metto in galera e poi ti faccio parlare. Metodologia che non poteva essere condivisa, una specie di tortura moderna, una barbarie giuridica che costringeva l'imputato a dire di più di quello che sapeva, ad accusare altri pur di riguadagnare la libertà. Nel caso dello Scandalo Pop l'accusa, rappresentata da un magistrato intelligente e preparatissimo come Tragnone, non è riuscita a provare, e non poteva riuscirci, il cosiddetto "dolo specifico" ossia la volontà dell'intera ex Giunta regionale di accordarsi per favorire (o sfavorire) propri amici (o nemici) per trarne un concreto vantaggio. Le tanto vituperate segnalazioni fatte dagli assessori erano, al contrario, un dovere da parte loro. Non potendo operare scelte in base ad un bando di selezione le cui lungaggini avrebbero fatto scadere i termini con la perdita di cospicui finanziamenti europei, i vari assessori, nei loro rispettivi campi e competenze, segnalarono i progetti più meritevoli. Ma per far scattare il reato, l'accusa deve dare la prova della collusione tra segnalati e segnalanti, non bastando infatti la semplice segnalazione. Che, peraltro, rispondeva a degli "interessi zonali" di ciascun politico, tesi questa "benedetta" dalla Cassazione. Lettere, ad esempio, era tenuto a segnalare le iniziative meritevoli di essere finanziate a giudizio del suo Assessorato secondo i suoi "interessi zonali". Oltretutto, la procedura d'urgenza, uno stato di necessità di fronte al rischio di una débâcle politica quale sarebbe stata la perdita di finanziamenti vitali per l'economia abruzzese, di per sé esclude il dolo, ovvero la volontà precisa di commettere un reato.

D. Ma l'allora Procuratore generale Bruno Tarquini ha sostenuto (8) che la Giunta Salini è stata assolta perché nel frattempo era cambiata la legge...
R. Non è vero. Quando è cambiata la fattispecie del reato di abuso d'ufficio nel 1990, era previsto il dolo specifico che nel nostro caso mancava.

D. Assolti per la giustizia, ma condannati dall'opinione pubblica...
R. Quella vicenda, e comunque tutta la rivoluzione di Mani Pulite, hanno finito per decretare la fine di una classe politica come effetto della legge sociale cosiddetta dell'eterogenesi dei fini. La "rivoluzione" di Tragnone, sul filo del diritto, ovvero applicando il diritto in maniera così rigorosa da finire per essere la negazione del diritto stesso, ha staccato la spina ad un malato terminale.

D. La caduta, dunque, di un "regime"...
R. Certamente. Si era arrivati al punto di non ritorno.

D. Un regime del quale, però, lei è stato un avvocato difensore...
R. Io difendo il diritto. Non possiamo liberarci di un sopruso con un altro sopruso. Dobbiamo rispettare i principi ispiratori della nostra esistenza che sono frutto della civiltà occidentale che, a sua volta, è figlia della cultura greca, romana e cristiana. Per dirla con Benedetto Croce, "Noi non possiamo non dirci cristiani".

D. È subito dopo la "rivoluzione" che lei, nel 1994, si affaccia nella vita pubblica cittadina candidandosi a sindaco. Si sentiva, sulla soglia dei 70 anni, l'"uomo nuovo" per questa città?
R. Era quello il momento ideale per la rinascita politica e morale. Il "nuovo" era rappresentato dalla neonata Forza Italia che, però, a mio giudizio emanava euforica improvvisazione. Proprio Forza Italia venne a chiedermi di candidarmi a sindaco. Alcuni emissari, chissà perché da Avezzano, mi fecero una proposta ufficiale dopo che, mi dissero, il mio nome era stato fatto in numerose e partecipate riunioni del nascente "popolo" azzurro. Presi tempo. Mi sollevò dall'imbarazzo il fatto che, come mi si disse, Alleanza nazionale aveva posto un veto sul mio nome. La scelta poi cadde sul giornalista Gianfranco Volpe che andò al ballottaggio ma venne nettamente battuto da Centi. (9)

D. Poi le arrivò una proposta di segno opposto. Come mai? Uomo nuovo o buono per tutte le stagioni e le casacche?
R. Mi spiego questa doppia, antitetica, proposta con la constatazione che ero decisamente fuori dagli schemi: nuovo per la "nuova" Forza Italia, nuovo per il "nuovo" che avanzava. Fatto sta che in casa mia si presentò una foltissima delegazione. Ricordo, tra gli altri, Luciano Fabiani, Giampiero Berti, Ezio Leonardis, Amedeo Ximenes, Marco Fanfani, Stefano Cardelli, Eugenio Carlomagno, Giorgio Tentarelli, Goffredo Palmerini, Giorgio De Matteis, Edoardo Caroccia, Mario Centofanti, Maurizio Floris. Mi garantivano appoggio incondizionato, tra gli altri, anche Franco Marini, Ottaviano Del Turco e Bruno Di Masci. Politici e personaggi espressione di varie anime cittadine che vagheggiavano un nuovo corso, una città nuova, fuori dai vecchi schemi. Ed io, evidentemente, incarnavo questa speranza. Mi strapparono il sì. Ma intuii, quando ormai era troppo tardi, che quella strana coalizione non poteva funzionare.

D. Quale intuizione?
R. Mi si cominciò a rimproverare che mi ero alleato con tutti personaggi comunque compromessi, altro che nuovi, desiderosi soltanto di tornare a galla, rifacendosi una verginità dopo la grande paura di Tangentopoli. Non solo. Si cercò a tutti i costi di convincermi a fare una trattativa sottobanco con il gruppo di Enzo Lombardi, cosa che io rifiutai perché, dicevo, bisogna agire alla luce del sole, non nascondere nulla, come invece avveniva in passato, ai cittadini. Bisognava essere, andavo predicando, chiari e trasparenti con gli elettori. Avrei dovuto capire che non potevo fare il Cola di Rienzo (10).

D. Dunque, vinse il comunista Centi... (11)
R. E dire che personalmente non avevo dato grande credito ai comunisti già trasformatisi, dopo la caduta del muro di Berlino, in una specie di piccola chiesa, di piccola setta. Ma la sconfitta dell'idea-Cecchini non è stata una vittoria di Centi e dell'allora Pds. Decisivo è stato, io ritengo, un ripensamento delle stesse forze che asserivano di sostenermi. Quando queste forze cittadine hanno capito che avrei fatto davvero di testa mia, che ero irriducibile e che mi battevo e mi sarei battuto contro i politici di professione da me aborriti, cambiarono il corso degli eventi. Si attivò, all'ultima ora, un travaso di voti a vantaggio del "vecchio" che sosteneva Centi il quale batté l'apparente "nuovo" che sosteneva Volpe.

D. Un irriducibile no all'abbraccio mortale con Lombardi: che giudizio dà dell'ex sindaco e senatore?
R. Il mio non era e non è un giudizio negativo sulla persona, sul politico del quale, pure, non sono mai stato un elettore. Il no era ad una mossa da Prima repubblica, ovvero un accordo sottobanco. Ritengo che Lombardi sia stato un sindaco efficiente ed energico. In una città in cui tutti dicono no, lui ha saputo imporre il suo punto di vista. Ha saputo polemizzare tenendo testa ai suoi oppositori.

D. E di Centi che giudizio dà?
R. Mani Pulite sembrava aver salvato soltanto i comunisti. Il messaggio che arrivava all'opinione pubblica era chiaro: i malandrini, alla luce delle inchieste su Tangentopoli, erano solo i socialisti di Craxi e la Dc di Forlani, Andreotti, De Mita. I comunisti no, erano puliti. Cosa che gli storici hanno già messo in discussione. Questo è un punto-chiave. Oggi chi difende i magistrati, ormai nell'occhio del ciclone, sono i comunisti con in testa l'onorevole Violante: che cosa è se non una restituzione di un favore? Migliaia di noi avvocati penalisti italiani, compatti, sollecitano la separazione delle carriere dei magistrati ed i post comunisti li fanno passare per berlusconiani. Ecco, la vittoria di Centi in quel 1994 matura in un simile clima. Tangentopoli, poi, non s'è rivelata la "rivoluzione" che prometteva di essere e si è tornati pari pari alla situazione ex ante.

D. Ovvero?
R. Al vecchio teatrino della politica. Perciò ho boicottato il Consiglio comunale dove pure avevo "guadagnato" uno scranno. Mi faceva senso quella politica delle piccole vanità, del gossip.
D. E del suo allievo Tempesta cosa dice?
R. Sono stato criticato perché, noto antifascista, ho fatto da "dominus" a giovani avvocati provenienti dalle fila del Msi, come Biagio Tempesta e Paolo Vecchioli. Ma io ho sempre cercato di trascendere questa sottocultura. Quella di una città in cui il potere è sempre stato nelle mani di ristretti circuiti parentali, "le famiglie" come le ha definite Lombardi. Una città in cui se tu pesti un callo in via Cascina il grido parte da viale Crispi. Un dominio di micro-oligarchie di sangue che non è quello, nel senso rinascimentale, che ha fatto la storia di questa città gloriosa. Le famiglie dei Gaglioffi, dei Pretatti, dei Branconio, dei Dragonetti, dei Camponeschi hanno fatto grande L'Aquila. Su Tempesta non ho la serenità necessaria per esprimere un giudizio sulla persona: certo la politica di questi anni, all'Aquila, è rimasta la stessa di prima. Oltretutto, Tempesta ha avuto la meglio nel 1998 su un Celso Cioni che non ho mai visto come vera alternativa ma soltanto come debole soluzione di compromesso: era la stessa sinistra che si dichiarava perdente già prima delle elezioni. Comunque, non posso non andare orgoglioso del fatto che miei allievi si sono fatti valere: Biagio Tempesta è sindaco, Paolo Vecchioli presiede l'Ordine degli avvocati, Stefano Rossi dirige la Camera penale. A loro voglio troppo bene per giudicarli. Ma il problema non sono gli uomini, nuovi o vecchi. Il problema è un altro.

D. Parliamone
R. Il problema è recuperare l'identità di questa città. Che non passa, con tutto il rispetto per chi perde il lavoro, per la difesa di un polo elettronico che non è mai esistito e sul quale, dunque, si vorrebbe far poggiare un economia imposta dall'alto che non è mai stata di questa città. Una città che, al contrario di industrie che non ha mai avuto, gronda di storia e di cultura.

D. Pare facile trovare una ricetta...
R. Appunto. Anche perché gli aquilani hanno commesso una serie di errori minando gli equilibri che ora è difficile, forse impossibile, recuperare e che, anzi, determinano devastanti effetti a catena come la recente richiesta di realizzare una sede decentrata della Corte d'Appello a Pescara. Uno dei due errori decisivi fatti è stato quello dell'aver consentito, in base alla filosofia delle quote imposta dal gasparo-natalismo, la "forchetta di Torano", ovvero la biforcazione dell'autostrada A24 invece di realizzare un unico tracciato "Roma- L'Aquila- Pescara". Avremmo dovuto avvicinarci a Pescara, accorciare le distanze. Bisognava intuire che l'economia della costa sarebbe stata vincente rispetto a quella della montagna. La nascita della regione, negli anni Settanta, doveva servire ad unificare i tre Abruzzi, non a creare due poli, uno dei quali condannato a soccombere. Pescara e la costa hanno dalla loro i numeri che noi non abbiamo.

D. Ed il secondo errore decisivo?
R. È stato quello di non aver favorito la crescita della Valle Peligna e della Marsica. Avezzano e Sulmona chiedevano la provincia? Ebbene, dovevamo sostenerli, agevolarli per poi poterci contare come alleati nella lotta per la sopravvivenza contro la strapotere della costa. Invece abbiamo anche loro contro: Sulmona ormai gravita su Pescara mentre la Marsica si considera una sub regione. Siamo isolati. Totalmente isolati. Un tiro al piccione contro di noi con l'obiettivo di far cadere, finalmente, dalla torre questa città a cui è rimasto solo il blasone. E noi possiamo soltanto difenderci, senza averne i mezzi e senza alleati. Dobbiamo prendere atto di essere una minoranza nel momento in cui il potere è affidato solo alle maggioranze. Una dittatura della maggioranza che rischia di uccidere questa città.

D. Errori fatti in passato. Le colpe dei padri, dunque, ricadono sui figli. Tra questi ultimi, tra i giovani, c'è qualcuno secondo lei che può aspirare ad essere l'"uomo nuovo"?
R. O non li conosco, o non vedo tra i giovani quella coscienza civica che potrebbe dare la stura al tentativo di riscatto. Certo, la mia generazione ha fallito. Così come ha grosse responsabilità la Dc che, chiamata a far nascere un Abruzzo unitario, ha invece partorito due "mostri": la costa e le aree interne. Con queste ultime destinate, ineluttabilmente, a soccombere.

D. Come può L'Aquila spezzare queste catene?
R. Recuperando e sfruttando le risorse che ha: la cultura, ad esempio, o se vogliamo usare una parola più al passo con i tempi, il turismo culturale. Un turismo che non può prescindere dal Gran Sasso, l'unica dolomite dell'Appennino, dove però, con l'avvento del Parco che pure potrebbe essere una risorsa, non si può spostare nemmeno una tegola. Abbiamo organizzato rassegne d'arte rimaste nella storia. Sono morte. Abbiamo dato i natali a grandi personaggi come Gioacchino Volpe, Giangaspare Napolitano, Panfilo Gentile, Nicola Ciarletta e tanti altri. Ma nessuno li ricorda più mentre altrove si fanno grandi festival inventando celebrità. Abbiamo monumenti millenari, addirittura prototipi unici al mondo come lo è dell'arte militare il Castello cinquecentesco. Ma non sappiamo sfruttarli. In una parola, dobbiamo recuperare l'Aquilanitas. (12)

* * * *

Aquilanità. Così l'avvocato Cecchini ne scrisse, già nel 1972, in un saggio dal titolo "La città e la sua gente":

Se la forza storica e la suggestione di una città sono anche legate al mito delle sue origini, hanno ragione gli aquilani quando si rifiutano di dissacrare la leggenda, secondo cui la loro "polis" scaturì dalla incastellazione delle novantanove genti dell'immediato contado, attorno alla metà del XIII secolo, sulla collina ancor oggi coronata dalle medioevali mura urbiche. E cosi il "99" è divenuto la cifra cabalistica dell'Aquila, il suo simbolo pitagorico: novantanove piazze e chiese, novantanove bocche della Fontana della Rivera, novantanove rintocchi vespertini dalla Torre di Palazzo.

Da allora una vicenda singolare di oltre settecento anni ha dato alla città una impronta precisa, un volto assolutamente originale, un carattere irripetibile: "castigliana" nella natura e nell'anima, severa e scorbutica, insofferente e sdegnosa.

L'"aquilanità" è una sostanza personale, è una temperie morale e civile, fatta di orgoglio, di fierezza, di scarse parole secche e pungenti, di icastico vernacolo, di dignitosa gentilezza e di nobiltà.

In un mondo entro cui il "particolare" sembra irrimediabilmente fare naufragio nel più anodino "generale", L'Aquila- "Immota Manet", come ammonisce il suo stemma- resta un'isola ancorata allo spirito medioevale, comunitario e individualista, turbolento, fazioso, mistico e libertario, pragmatico, baronale e democratico insieme. Sono questi i tratti che ispirano la costante delle sue vicissitudini storiche. Angioina e sveva, guelfa e ghibellina.

"Era la città dell'Aquila in modo sottoposta al regno di Napoli, che quasi libera viveva", lo ha scritto Niccolò Machiavelli (Istorie Fiorentine, Libro VIII). E gliene rende vivacissima testimonianza quell'Alonzo de Contreras, incaricato nel febbraio del 1632 dal Viceré di punire "la città di Aquila, che è tra le maggiori del regno, perché i suoi abitanti avevano mancato di rispetto al Vescovo". "Questa città- annota il capitano di ventura spagnolo- è cosi disobbediente, per trovarsi ai confini del territorio di Roma, che quasi non riconosce il Re" (Alonzo de Contreras, Le Avventure del Capitano, Ediz. Longanesi 1968).

Il re, dunque, "disegnava ridurre L'Aquila interamente all'ubbidienza", prosegue il Segretario Fiorentino, e cominciò con l'imprigionare l'aquilano Conte di Montorio. "Questa cosa come fu nota all'Aquila- narra il Machiavelli- alterò tutta quella città, e prese popolarmente l'arme, fu morto Antonio Cencinello commissario del re, e con quello alcuni cittadini, i quali erano conosciuti a quella maestà partigiani".

È il celebre episodio della "Congiura dei Baroni" (1468) che rischiò di sconvolgere il difficile equilibrio politico della penisola, di cui s'era fatto ago ed arbitro Lorenzo il Magnifico.

E forse ancor più significativo è l'altrettanto celebre topico della lotta tra bracceschi e aquilani. Braccio da Montone intendeva insignorirsi della città e forse del regno, "e se non era rotto e morto all'Aquila, gli riusciva" commenta sempre Niccolò Machiavelli (Dell'Arte della Guerra, Libro Primo).

Venne Braccio all'Aquila forte dell'appoggio di Nicolò Piccinino, Malatesta Baglioni, il Gattamelata, il Conte Brandolino. Entro le mura Antonuccio Camponeschi arma i cittadini, ed attende l'arrivo dell'alleato Jacopo Caldora. Con l'animoso abruzzese di Castel di Sangro erano Francesco, e Ludovico Sforza, il Conte Acquaviva, Ludovico Colonna e Francesco Caracciolo. In capo ad un anno di duro assedio, finalmente lo scontro in campo aperto. "Quando vide gli uomini di Caldora schierati alle spalle dei bracceschi nella piana dell'Aterno, Antonuccio fece un'irresistibile sortita coi suoi aquilani. I bracceschi, presi tra i due eserciti, subirono una irreparabile sconfitta. Braccio cadde da prode sul campo il 12 giugno 1424". Così scrive Panfilo Gentile, e commenta: "Questa battaglia fu una vera parata di condottieri; vi trovarono gloria tutti i più celebri capitani dell'epoca". Ma più importante è annotare che con la morte di Braccio s'infransero contro le mura aquilane i deliri di conquista e di potenza delle "Compagnie di ventura", protagoniste di un esaltante capitolo della storia d'Italia.

Di simili avvenimenti è intessuta la vicenda civile dell'Aquila, popolo "bravo" si direbbe in spagnolo, animoso e passionale. Memorabili restano le guerre intestine tra le famiglie dei Camponeschi, dei Pretatti, dei Roiani, dei Gaglioffi, che tanto imparentano L'Aquila a Firenze, sicché, se Curzio Malaparte le avesse conosciute, non avrebbe esitato ad associarci, al pari degli umbri, alla "nazione toscana". Così pure sono consegnate alla storia le figure dei signori aquilani di statura rinascimentale, tra cui primeggia un Lalle Camponeschi, che il pugnale spense nel 1354 al colmo della fortuna, vezzeggiato da monarchi e incontrastato dominatore di mezzo reame.

Questo cipiglio, tanta arditezza e facinorosità, se si vuole, alimentano le numerose "spedizioni punitive" contro Leonessa, Cittaducale, Rieti, Amatrice, Montereale, Pendenza, Antrodoco, condotte dalle schiere aquilane per rappresaglia o sopraffazione. "Ad reprimendam audaciam aquilanorum" Carlo V impose a loro spese la edificazione di quel capolavoro di architettura militare che è la fortezza spagnola.

E tali connotati caratterizzano ogni manifestazione della vita cittadina. Si tramanda, ad esempio, che L'Aquila sia stata la "plaza de toros" più famosa e più calda d'Italia, quando tra il 1400 ed il 1500 la tauromachia ebbe larga voga anche da noi. All'Aquila si celebrarono corride memorande, ed in una di esse il toro ebbe la meglio sul torero infilzandolo.

Altrettanta partecipazione si ritrova nella storia religiosa della città, che ebbe diffusa rinomanza per le processioni e per le sacre rappresentazioni che vi si tenevano, per lo stuolo di Santi e di Beati che la predilissero, per gli ordini, i monasteri, i conventi e le confraternite che la popolavano. E non pare azzardato individuare la matrice di siffatti tradizione e carattere, nella verticale vicenda celestiniana che rimonta agli albori della comunità aquilana, e che espresse l'ultima vampata della spiritualità medioevale.

Erano i secoli che avevano visto inasprirsi fino allo scisma il confronto tra la "Ecclesia spiritualis" degli agostiniani, dei catari, patarini, arnaldisti e valdesi, di Francesco d'Assisi, Gioacchino da Fiore e Pietro del Morrone, e la "Ecclesia carnalis" dei politici e dei canonisti.

Ebbene, l'ultimo atto di quel confronto, decisivo per l'avvenire dell'umanità, ebbe per teatro L'Aquila: "Il corteo fastoso dei cardinali, di alti dignitari della Chiesa, di principi, che si snodò attraverso le strade della Campania verso gli altopiani d'Abruzzo, per accompagnare il papa fino alla sua solenne incoronazione, avvenuta all'Aquila in Santa Maria di Collemaggio, rappresentò il supremo omaggio tributato dal torbido mondo politico del secolo tredicesimo alla purezza dell'ideale pauperistico" (Raffaello Morghen, Medioevo Cristiano, Laterza 1970).

Il 29 agosto 1294 fu il canto del cigno d'un'epoca, di una concezione della vita e della morte: e gli aquilani ne rappresentarono il coro attorno al fragile protagonista, quel Celestino V che in capo a cinque mesi avrebbe opposto il "gran rifiuto" alle pressioni del temporalismo, alla marea montante delle esigenze nuove. Gli succedette, infatti, il colossale personaggio che fu Bonifacio VIII, massimo campione dell'altra "Ecclesia".

In più di una contingenza storica, quindi, L'Aquila ebbe a trovarsi nell'occhio del ciclone.

E non fu grande solo per questo.

La geografia la volle punto nevralgico sull'asse Firenze- Napoli e tanto vicina alla Roma papale, che divenne ragguardevole proprio in forza dell'influenza che esercitò nel gioco politico delle maggiori potenze del tempo: la Firenze medicea, il Reame di Napoli e lo Stato Pontificio.

Cavalcando per quindici giorni dall'alba al tramonto da Firenze, attraverso Perugia, Terni, Rieti, L'Aquila, Sulmona e Teano, si raggiungeva Napoli per l'unica via di terra possibile. Il che pose L'Aquila al centro di una vera e propria "carovaniera" che funse da cerniera tra nord e sud e da ponte per lo scambio delle idee e delle esperienze. Favorita dalle comunicazioni, fiorente e doviziosa nell'industria della lana e dello zafferano, come nell'artigianato più vario e nei commerci e nella finanza, L'Aquila assurse nei secoli XIV e XV al rango dei più illustri Comuni d'Italia, e fu gelosissima dei molti "privilegi" conseguiti per merito oppure strappati con la forza. Ebbe la stessa popolazione di Firenze e di Genova, non di molto inferiore a Napoli, Milano, Venezia e Palermo.

La vita cittadina, articolata in esemplari magistrature, statuti e corporazioni, si svolse operosa nella prosperità e nel fervore collettivo. Lo stanno a testimoniare le sue grandi vestigia: la Fontana delle 99 Cannelle, le mura, la Basilica di Collemaggio, quella di San Bernardino, il Palazzo civico, i templi rionali, per non parlare che dei monumenti sopravvissuti ai catastrofici terremoti che l'afflissero.

Sarebbe incomprensibile siffatta imponente mole di realizzazioni architettoniche, senza evocare lo sforzo e l'impegno dell'intera cittadinanza e soprattutto il contributo finanziario dei ricchi e dei potenti. Unicamente rigogliose ed opulente comunità civiche sarebbero state capaci, in quei tempi, di voltar cupole, innalzare torri e campanili, edificare palazzi e cattedrali simili alle gemme di questa città.

Oggi, tanto glorioso passato si legge nella patina d'oro che al tramonto dona luminosità alle stupende fronti delle chiese aquilane.

E si legge fin nel volto dell'umile popolano, caustico testimone di un'epoca che declina: altero, signore, saggio, diffidente e maestro di arguzia, ospitale ed aperto quant'altri mai, sempre però con misura e senza piaggeria, "snobbatore" per eccellenza di vivi e di morti, leale ma tignoso, fulmineo alla protesta ed alla sobillazione contro chiunque osi fare torto all'"Aquila bella sé" (la sua Aquila bella).

Questa la città, questa la sua gente.

Chi voglia assaporarne le intime, intense seduzioni, raggiunga e riscopra i solenni monumenti del passato per i segreti, tortuosi ed animati vicoli, chiassetti, sdruccioli ed archi dei quartieri medioevali, lungo un ideale itinerario che risalga il tempo sino ai confini della cabala e della leggenda.

Soltanto cosi il "novantanove" cesserà di essere un numero. (13)



Note al testo


(1) Ansa, Roma, ore 9,06, 24 agosto 1990 (torna al testo)
(2) "Presunto innocente, cronaca del caso Perruzza", pag. 273, Edizioni Tracce (torna al testo)
(3) Ibidem, pagg. 224-227, Edizioni Tracce (torna al testo)
(4) Il titolo originale è "Cuando era feliz e indocumentado", 1973 (torna al testo)
(5) "Un giornalista felice e sconosciuto", pagg. 189-190, Feltrinelli Editore, 1974 (torna al testo)
(6) Dall'Archivio Cecchini (torna al testo)
(7) Dall'Archivio Cecchini, L'Aquila, 6 settembre 1948 (torna al testo)
(8) Vedi pag. (torna al testo)
(9) Volpe prese, al primo turno, 11.785 voti (pari al 26,8%) contro i 14.294 (32,5%) di Centi. Le preferenze di quest'ultimo, sostenuto dalle liste Pds, Uniti per L'Aquila e La Rete, saliranno a 20.209 (57,01%) al ballottaggio contro i 15.101 (42,99%) dell'avversario espressione delle liste Forza Italia, Alleanza nazionale e Lega Italia Federale (torna al testo)
(10) Nato nel 1313 a Roma da famiglia modesta, figlio di un taverniere e di una lavandaia, Cola (Nicola) divenne famoso tra la gente del popolo, a cui teneva discorsi contro la corruzione del governo e contro le ingiustizie sociali. Nel maggio 1347 guidò una rivolta e mise in fuga i senatori, proclamandosi tribuno del popolo ed emanando una nuova costituzione. Ma il suo governo ben presto si trasformò in una sanguinosa dittatura. Un po' alla volta perse il sostegno della gente e venne accusato di eresia dal Papa. A dicembre dello stesso anno abdicò e lasciò Roma. Anni dopo riconquistò il titolo da tribuno ma la popolazione si ribellò fino alla rivolta dell'ottobre 1354 quando la gente circondò il municipio sul Campidoglio. Cola tentò di travestirsi, annerendosi il volto ed indossando abiti plebei. Ma dimenticò di togliersi i braccialetti d'oro e fu così riconosciuto, catturato ed ucciso. (torna al testo)
(11) Cecchini, sostenuto dalle liste Ppi e Democratici progressisti, riportò 10.217 voti (pari al 23,2%). Gli altri candidati al primo turno, oltre Centi e Volpe, furono Corrado Ruggeri per Movimento aquilano Buon Governo e Riformatori per L'Aquila (3.832 voti pari all'8,7%), Carlo Benedetti per Rifondazione comunista (1.803 voti pari al 4,1%), Antonio Mazzotta per Città nuova (1.232 voti pari al 2,8%) e Onorino Vespa per Forza L'Aquila (811 voti pari all'1,9%) (torna al testo)
(12) Intervista realizzata il 13 aprile 2004 (torna al testo)
(13) "L'Aquila città del novantanove", L'Aquila 1972, G.Tazzi Editore (torna al testo)