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Riflessioni sull'Emigrazione Abruzzese

LA CONFERENZA DI AMEDEO ESPOSITO


Traccia della conferenza: “Riflessioni sull’emigrazione abruzzese”
Omaggio all’on. Marisa Bafile
Comune di Tornimparte (Aq)
Domenica 24 settembre 2006
su invito del sindaco dott. Antonio Tarquini


«Storicamente, il fenomeno migratorio ha migliorato il benessere, non solo degli emigranti, ma dell’intera umanità».

È ciò resta vero, per il Segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan che lo ha affermato nel suo rapporto all’ONU, presentato all’inizio di giugno scorso, nel quale ha riassunto i risultati di alcune ricerche – com’egli scrisse lo stesso 6 giugno su Il Messaggero - che confermano come «dalle emigrazioni, almeno nei migliori casi, traggono beneficio non solo gli stessi emigranti, ma anche i Paesi di destinazione e quelli di provenienza».

Forse le affermazioni di Annan non hanno molta originalità, tuttavia esse rappresentano la sintesi dello stato dell’emigrazione nel mondo, dal quale gli emigrati italiani (compresi e soprattutto gli abruzzesi) sono usciti a testa alta.

L’emigrazione abruzzese, «nel senso moderno del termine», radicalmente mutata da circa 20 anni, ebbe principio nel 1870, sia in Europa e sia oltreoceano. A dare il là - come si dice – furono Sulmona e Vasto i cui lavoratori si concentrarono in Argentina. Seguirono i teramani in Brasile.

Nel 1888 cominciò l’esodo dai comuni degli altipiani dello zafferano e di Rocca di Mezzo, per arrivare al 1895 quando la via, la più percorsa ancora oggi, fu quella degli USA. Contestualmente molta parte di cittadini dei comuni chietini si diresse verso il Sud America. Non ebbero la stessa connotazione migratoria i gruppi di aquilani, formati da bassa manovalanza anche di Lucoli, Amatrice, Tornimparte e Leonessa, che dal 1891 al 1893 scavarono il Canale di Corinto e parteciparono ai grandi lavori ferroviari della Tessaglia, della Macedonia e della “linea medio-orientale” sul suolo italiano, divenuta poi “linea adriatica” - che oggi tutti conosciamo - in seguito alla statizzazione delle strade ferrate dell’Italia, ideata e decisa fin dal 1876 dall’allora ministro dei lavori pubblici dello Stato unitario, l’abruzzese Silvio Spaventa. (Nota: non a caso Romano Prodi in Cina ha rilevato che con la riattivazione e ampliamento dei porti dell’Adriatico si avrebbero sei giorni di navigazione in meno rispetto alle attuali rotte per Amburgo e Rotterdam).

A Teramo l’emigrazione esplose nel 1901 con massicci spopolamenti che riguardarono anche quasi tutte le nostre zone montane, e più significativamente di Chieti e Lanciano, con prevalenza di Vasto.

La ventennale parentesi del regime non attenuò l’aspirazione, o meglio la pressante necessità all’emigrazione, ripresa massicciamente con la fine della seconda guerra mondiale.

Allora si aprirono le rotte dell’Australia, per i vastesi e molti lavoratori di Paganica dell’Aquila, e del Venezuela per tantissimi aquilani e altrettanti cittadini della Valle Peligna.

Quasi contemporaneamente numerosi imprenditori di Rocca Mezzo presero la via delle cave di diamanti del Sud Africa. Ortona a Mare, in seguito all’accoglienza delle truppe canadesi che la sollevarono dal fuoco di guerra, si diresse verso il Canada che, sappiamo tutti, essere stata ed è meta di migliaia di abruzzesi anche delle Valli Peligna, Aterno e di quella del Pescara.

Gli Stati Uniti contarono e contano la maggiore concentrazione dei nostri corregionali, oggi tutti italo-americani, aumentati nel loro numero in modo esponenziale fin dai primi del secolo scorso.

Ho voluto fare questo quadro di sintesi di avvenimenti ormai lontani, che però ci immerge in mondi dai quali traiamo l’oggi. Chi in precedenza andava in America non aveva niente da perdere. Nei nostri giorni chi parte – e sono i giovani, i professionisti gli scienziati - lo fa per non perdere quello che ha: e cioè il talento, le ambizioni, il saper fare.

E’ la cosiddetta fuga dei cervelli. Ed è questo il movimento che «migliora il benessere dell’umanità», stando al Segretario dell’ONU, ma non dell’Italia, aggiungo io.

Certo questa nuova e globalizzante frontiera dell’emigrazione abruzzese – alla quale l’Abruzzo deve anche il suo essere e benessere - non esclude il ricordo delle sofferenze passate, delle umiliazioni subite, degli sbandamenti anche politici avuti in precisi contesti locali, ed in determinati paesi ospitanti.

Ne è prova quel che definisco “il museo dell’olocausto degli emigrati italiani”, che parla del terrore dell’Ellis Island, aperto ai piedi della statua della Libertà di New York. Dal quale non è difficile trarre le cronache e le storie, anche dolorose e mortali, di un passato che non va dimenticato.

Una di queste cronache ricorda – ormai sopiti gli animi - quel che fu lo stato dei nostri emigrati in Venezuela negli anni di vigenza (1952-1958) in quel paese della dittatura di M. Perez Jimenez. Le nostre comunità cercarono di non rimanere impigliate nelle maglie del dittatore, il quale poté contare solo su alcuni ben individuati elementi, “rinnegati” allora e sempre dalla maggioranza degli italiani, oggi tutti indistintamente italovenezuelani.

La loro neutralità e quindi la loro incolumità furono difese strenuamente da due giornalisti aquilani: Gaetano Bafile e Attilio Maria Cecchini (quest’ultimo oggi noto penalista), fondatori de “La voce d’Italia” a Caracas, i quali spesero ogni energia e intelligenza per salvaguardare i nostri connazionali, e al tempo stesso di non alterare i rapporti economici tra il Venezuela e l’Italia, che aveva allora, come ora, estremo bisogno del petrolio venezuelano.

Oggi la figlia italovenezuelana di Gaetano Bafile, l’on. Marisa siede nel parlamento italiano eletta nelle liste della diaspora dei residenti all’estero. Ed è a tutti chiaro che non è venuta dal nulla, posta com’è sulla nuova frontiera dell’emigrazione che suscita, senza dubbio, i “benefici” citati da Kofi Annan.

E come non dal nulla nasce la “profonda evoluzione degli italoamericani” i quali, se non a superare, sono riusciti certamente ad eguagliare le altre etnie di elitè, compresa quella ebraica.

Entro questa “evoluzione” le comunità abruzzesi in America sono state e sono protagoniste di avvenimenti eccezionali, quali quelli degli anni del dopoguerra, quando il mondo era in rivoluzione e l’Italia, non meno che l’Abruzzo, soffrivano la più profonda depressione morale ed economica, superata – a mio parere – per molta parte dall’intervento diretto ed indiretto dei nostri emigrati.

Certamente intervennero perché, dal ’46 al ’47, gli USA destinassero all’Italia gli aiuti di sopravvivenza (derrate alimentari e medicinali, in particolare). Nel 1948 l’Italia, che già da due anni aveva scelto la Repubblica, si unì senza esitazione ai Paesi democratici dell’Europa occidentale per “risorgere” dalle devastazioni della seconda guerra mondiale, fruendo con essi del Piano Erp (European Recovery Program), o Piano Marshall (dal nome del generale Gorge Marshall, che lo ideò, allora segretario di stato e Premio Nobel per la pace 1953).

Gli aiuti, comunque utilizzati, innescarono – com’è universalmente noto – la “guerra fredda” per la quale si evitò che alcuni paesi chiave dell’Occindente (Italia in testa, la più convinta allora nello scongiurare che “i cavalli dei cosacchi si abbeverassero nelle fontane di Roma”), cadessero sotto l’impero dell’URSS.

E qui una breve digressione. Negli incontri “non ufficiali” avuti a Washington, dal 3 al 7 gennaio del 1947, il presidente del consiglio Alcide De Gasperi aveva illustrato agli americani i bisogni dell’Italia, sottolineando «i pericoli legati ad un eventuale successo dei comunisti», allora piuttosto radicati in quasi tutte le regioni italiane, compreso l’Abruzzo costiero.

Ottenne – come è ormai storia – la “comprensione” dello stesso Marshall il quale promise che «gli USA avrebbero dato tutto il possibile appoggio e assistenza per un’Italia libera e democratica».

Si apprese successivamente, che aggiunse con fermezza: «Purché siano sconfitti i comunisti e messi fuori dal governo». Il 13 maggio successivo, quell’invito fu accolto pienamente da De Gasperi, il quale concluse l’esperienza governativa del tripartito (Dc,Pci, Psiup), escludendo dal governo in primo luogo il ministro di grazia e giustizia Palmiro Togliatti. Al quale la storia però riconosce d’essere stato uno dei costruttori della Repubblica italiana.

Entro questo scenario fu “calato” il Piano Marshall, con la dovuta accentuazione nelle motivazioni ideologiche che indusse De Gasperi a dare uno specifico mandato a Giuseppe Spataro, capo indiscusso e carismatico del Popolari abruzzesi di Sturzo, perché fosse sconfitto il Pci, radicato allora profondamente In Abruzzo, in particolare lungo la costa da Vasto a Martinsicuro, con roccaforte a Pescara, dove nelle consultazioni locali del 15 febbraio del 1948, per eleggere il consiglio comunale pescarese, il fronte popolare (Pci e Psi), allargato ai repubblicani, ottenne una vittoria schiacciante: il 79 per cento dei suffragi.

Vittoria che allarmò non poco De Gasperi, il quale strinse le fila dei suoi tutti protesi contro i comunisti. Fu anche una vittoria che illuse la sinistra – Nenni in particolare – dandogli la convinzione di essere giunto il momento per una sicura vittoria in tutto il Paese. Due mesi dopo, però, il 18 aprile 1948, uscì un altro voto.

Previsione errata dunque! E fu il nostro bene!

A sostenere, pur da lontano, le azione di Spataro, le comunità dei nostri corregionali negli USA, decisero, con molta fortuna, di attuare il più incisivo dei loro interventi, per ridare all’Abruzzo intero prosperità e libertà.

Nel luglio del 1948, infatti, indissero una innumerevole convention a San Francisco, alla quale, espressamente invitato, chiamarono a partecipare il plenipotenziario per l’applicazione degli aiuti Erp in Italia, James David Zellerbach, successivamente nominato ambasciatore a Roma.

Magnate della carta, noto in tutti gli USA, Zellerbach ricevè dagli emigrati abruzzesi una targa d’oro di ringraziamento per quello che stava facendo e avrebbe fatto ancora perché l’Abruzzo uscisse dalle immense e totali distruzioni della guerra, dovute alle sanguinose battaglie svoltesi nelle nostre contrade per nove lunghi mesi.

Al Plenipotenziario – si seppe poi - i delegati abruzzesi, in separata sede, raccomandarono di “annientare” il comunismo in Abruzzo.

Nessuno pensi che la raccomandazione non presupponesse un esplicito impegno elettorale da parte delle stesse comunità.

L’Italia e l’Abruzzo appresero dell’accordo, rimasto riservato per circa un anno, dal New York Times del 3 giugno 1949 che pubblicò un ampio servizio dell’allora suo corrispondente da Roma, Michael L. Hoffman.

I nostri emigrati in America ebbero in tal modo la loro bella vittoria, in seguito alla battagliata condotta in Abruzzo, congiuntamente per loro, dal plenipotenziario Zellebarch e da Spataro.

Zellerbach mantenne gli impegni presi, attuando nella nostra Regione qualche forzatura nell’applicazione del Piano Erp.

Uno per tutti: il trasferimento da Genova all’Aquila di una linea per la produzione di valvole termoioniche della società Marconi, su cui poi si sviluppò l’ormai smantellato polo elettrico aquilano.

Non vi è nulla di eccezionale in quello che sono andato dicendo. Tutto è ormai fissato nella storia. Come documentalmente ho esposto in alcuni seminari sull’emigrazione, diretti ai giovani giornalisti abruzzesi.

Senza ombra di dubbio – e concludo – va riconosciuto che, anche per i nostri emigrati e anche con loro, abbiamo avuto modo di creare la bella Patria in cui viviamo. E cioè, per quel che mi riguarda, la “Patria di Ciampi”: una, libera, democratica, europea, ammantata dal tricolore.

Grazie.
Amedeo Esposito