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Il Discorso di Angelo De Nicola

di ANGELO DE NICOLA


Intervento in occasione
del conferimento della cittadinanza onoraria
del Comune di Tornimparte


Signor sindaco, signori consiglieri comunali, on. Marisa Bafile, Autorità, cittadini di Tornimparte, gentili ospiti
Quando nel 1993, accompagnato da mio zio Americo Del Signore, visitai "Ellis Island", l'isoletta della baia di Nuova York dove gli Americani nel 1990 hanno eretto il "Museo dell'immigrazione", feci fatica a non farmi sopraffare dalle lacrime.

Sul "The wall of honour", il muro dell'onore che si snoda per centinaia di metri nel giardino del museo e sul quale sono scritti i nomi di dieci milioni di emigranti passati di lì, inciso su una lastra di alluminio vidi, e sfiorai con i polpastrelli, come in un linguaggio "braille" della memoria, il nome dei miei nonni: Annunziata Fusari e Ercole Del Signore. Emigranti in cerca di una terra promessa, lontani miglia e miglia dai borghi di povertà e di scarsissime opportunità di Capo la Villa e Villagrande di Tornimparte.

All'interno del museo, tra valigie di cartone legate con lo spago, documenti e gigantografie (tra le quali quella, drammatica, di una donna che lava, con la fronte quasi a terra, a mano, un pavimento con uno straccio) un groppo alla gola mi assalì nel visitare uno dei dormitori. Quello che era destinato a coloro che sostavano per i controlli e la "quarantena", rimasto pressoché intatto. Come un flash, ho avuto l'impressione del campo di concentramento: "Il lavoro rende liberi".
Mi hanno spiegato che quando le navi a vapore entravano nel porto di New York, i passeggeri facoltosi, quelli di prima e seconda classe, venivano ispezionati a loro comodo nelle loro cabine e scortati a terra da ufficiali del Servizio d'immigrazione. I passeggeri di terza classe, invece, venivano portati a bordo di un piccolo traghetto a Ellis Island per l'ispezione, che era più dura. Ogni immigrato in arrivo portava con sé un documento con le informazioni riguardanti la nave che l'aveva trasportato fino a New York. I medici esaminavano brevemente ciascun emigrato e sulla schiena, come un marchio, apponevano con del gesso un segno a coloro per i quali occorreva un ulteriore esame per accertarne le condizioni di salute.

Se vi erano condizioni particolari di infermità ciò comportava che l'immigrato veniva trattenuto all'ospedale di Ellis Island. Dopo questa prima ispezione, gli immigrati venivano accompagnati verso la parte centrale della "Sala di Registrazione" dove gli ispettori interrogavano gli immigranti a uno ad uno. A ognuno occorreva perlomeno un'intera giornata per passare il lungo ed estenuante processo di ispezione a Ellis Island.

Le scene sull'isola erano veramente strazianti: per la maggior parte le persone arrivavano affamate, sporche e senza una lira, senza conoscere una parola di inglese; si sentivano estremamente in soggezione per la metropoli ammiccante sull'altra riva. Veniva loro assegnata una "Inspection Card" con un numero e c'era da aspettare anche tutto un giorno mentre i funzionari di Ellis Island lavoravano per esaminarli.
Dopo l'ispezione, gli immigrati scendevano dalla "Sala di Registrazione" per le "Scale della Separazione" che segnavano il punto di divisione per molte famiglie e amici verso diverse destinazioni.

Il centro era stato progettato per accogliere 500.000 immigrati all'anno, ma nella prima parte del secolo ne arrivarono il doppio. Truffatori saltavano fuori da ogni dove, rubavano il bagaglio degli immigrati durante i controlli e offrivano tassi di cambio da usurai per il denaro che questi erano riusciti a portare con sé.

Le famiglie venivano divise, uomini da una parte, donne e bambini dall'altra, mentre si eseguiva una serie di controlli per eliminare gli indesiderabili e i malati. Questi ultimi venivano portati al secondo piano, dove i dottori controllavano la presenza di "malattie ripugnanti e contagiose" e manifestazioni di pazzia.

Mi ha raccontato Bruno Sammartino, "The Living Legend" (la leggenda vivente) per essere arrivato a detenere il titolo della World Wrestling Federation per un totale di 12 anni. L'atleta, che fu anche lo sportivo preferito di Mohamed Alì, in una parola "il Marciano della lotta" sulla cui vita è stato girato un film hollywoodiano: "A 12 anni, malaticcio e magro come un grissino, partii da Pizzoferrato, in Abruzzo, con una valigia di cartone per raggiungere papà in America. Non lo avevo mai visto perché era partito per Pittsburgh, in Pennsylvania. Dopo due settimane in mezzo ad un oceano in tempesta arrivammo sulla nave "Saturnia" a New York e, salendo per la prima volta sul ponte, la Statua della Libertà ci sembrò a tutti la Madonna. Ad accoglierci c'era tanta gente con dei cartelli in mano con delle lettere. Io, mia madre e mia sorella ci dirigemmo verso la "S". Ci venne incontro un uomo, vecchio e basso. Mi dissi: "No, non può essere mio padre". Era lui. Mi abbracciò fino a spezzarmi il respiro. Dopo una breve visita a Philadelphia a casa di zia Peppiniella, arrivammo a Pittsburgh. La casa in cui viveva mio padre, vicino al posto dove lavorava, mi fece paura. Era meglio la nostra povera casa di Pizzoferrato".

Coloro che non superavano gli esami medici venivano contrassegnati, come già accennato, con una croce bianca in gesso sulla schiena e confinati sull'isola fino a diversa decisione, oppure venivano reimbarcati. I capitani delle navi avevano l'obbligo di riportare gli immigrati non accettati al loro porto di origine. Secondo le registrazioni ufficiali, tuttavia, solo il due per cento veniva rifiutato, e molti di questi si tuffavano in mare e cercavano di raggiungere Manhattan a nuoto o si suicidavano piuttosto che affrontare la mortificazione del ritorno a casa come appestati, non "buoni per il Re e, dunque, nemmeno per la Regina".

Veniva anche effettuato un esame di natura legale, che controllava la nazionalità e, cosa ritenuta molto importante, l'eventuale affiliazione politica. L'afflusso di immigrati era sempre altissimo e imponente il lavoro dei funzionari che sottoponevano a ispezione e interrogatorio le persone: nel giro di alcune ore veniva deciso il destino di intere famiglie. Cosa che rese Ellis Island tristemente famosa con il nome di "Isola delle lacrime". Le lacrime, appunto.
La maggior parte degli immigrati veniva esaminata e quindi convogliata verso il vicino Stato del New Jersey; una volta arrivati a destinazione, gli immigrati si stabilivano in uno dei distretti etnici in rapida espansione.

Ercole e Annunziata, i miei nonni, arrivarono nella zona di Union Town, vicino la città di Pittsburgh nello Stato della Pennsylvania. Nonno per lavorare presso le miniere, nonna per accudire il marito e gli altri minatori. Lavorarono come muli superando difficoltà di ogni tipo. Sputarono sangue. Mangiarono polvere. Morì anche un figlia: Agata della quale ho visitato la minuscola tomba bianca in un piccolo cimitero vicino Union Town.



Ercole e Annunziata (qui sopra in un foto d'epoca scattata in America, a Republic, in Pennsylvania, negli anni Trenta), messo da parte qualche dollaro, i due decisero di tornare in Italia per continuare l'attività legata al commercio della legna e del carbone. "Emigrarono" di nuovo da Tornimparte alla vicina città dell'Aquila dove impiantarono un'attività commerciale. Sputarono sangue. Mangiarono polvere. Crebbero sette figli di cui tre emigrarono in America, a Pittsburgh.

Ecco, anche per questo, come hanno sottolineato l'associazione Pro Loco di Tornimparte e l'associazione "Fonte Vecchia" di Villagrande, mi sono sempre sentito orgoglioso di essere un tornimpartese. E' merito soprattutto di questi silenziosi eroi se oggi io sono qui. Se noi tutti siamo qui.

Il riconoscimento della cittadinanza onoraria, la massima onorificenza che un Comune possa concedere, non è, dunque, alla mia modesta persona, ma è a loro. E bene avete fatto, signor Sindaco, ad incentrare la giornata sul tema "Tornimparte e l'emigrazione" con l'illustre intervento dell'onorevole Marisa Bafile, impreziosito dalla prolusione dello storico Amedeo Esposito. Marisa Bafile, amica e collega, oggi "emigrante di ritorno" visto che è diventata Deputato del Parlamento italiano quale eletta all'estero nella Circoscrizione dell'America del Sud, è figlia di quel Gaetano che con l'avvocato (Attilio Cecchini, uno dei punti di riferimento della mia vita), lasciarono L'Aquila nel 1950 per inseguire un sogno di libertà a Caracas, in Venezuela. Emigranti, anche loro.

Mi ha raccontato Cecchini (nel libro "Da Tragnone a Fidel Castro", pag. 341, Edizioni Textus): "Volevo la libertà. Volevo conoscere cosa c'era la di là delle Alpi. Volevo evadere. Volevo "conquistare" il mondo... Con l'amico fraterno Gaetano Bafile, che mi precedé di un anno a Caracas preparando il terreno, la scelta fu precisa: volevamo fondare un giornale nell'America Latina. Una scelta sulla carta, fatta nel mio studio, a tavolino: il Venezuela, il paese più affine alla nostra cultura, il sogno degli emigranti di quegli anni. Era l'agosto del 1950. Chiusi lo studio da avvocato ed abbandonai la città senza avvertire nessuno".

Un sogno che si chiamava "La Voce d'Italia"... "Il sogno di un giornale antifascista in un paese che viveva un rigurgito fascista non soltanto perché era sotto una dittatura ma soprattutto perché qui si rifugiarono, dopo la sconfitta bellica, molti di quegli imprenditori italiani, legati al fascismo, che avevano fatto investimenti in Africa. Il Venezuela, in quegli anni, stava vivendo una svolta decisamente fascista nella quale si riconosceva la vecchia guardia degli immigrati italiani, la cui comunità contava molto perché assai organizzata e solidale. A Caracas si continuavano a festeggiare ancora tutte le ricorrenze mussoliniane ed in camicia nera. I vecchi emigrati si andavano saldando con gli imprenditori "africanisti" che si rifugiavano in Venezuela in un patto scellerato per sfruttare i nuovi emigrati, per lo più antifascisti, come manodopera a basso costo. Così a basso costo da suscitare la rabbia dei sindacati venezuelani per la concorrenza, ritenuta sleale, nei confronti dei lavoratori autoctoni che già non se la passavano benissimo. Ecco, "La Voce d'Italia" si schierò subito dalla parte degli oppressi, di quegli italiani che mangiavano soltanto banane e Coca- cola, anzi Pepsi- cola ("Camburos y Pepsicola"), ossia gli unici alimenti a basso costo, e che vivevano di stenti pur di rimettere in Italia valuta, a quei tempi, pregiata. Quegli emigranti che, una volta sbarcati nella "terra promessa", venivano tenuti per due settimane nel campo di concentramento di Sarrìa, dopo avventurosi viaggi a bordo di vere e proprie carrette del mare. Ricordo che, in uno dei miei viaggi, la "Franca C." su cui eravamo imbarcati, andò alla deriva per due giorni nell'oceano dopo la rottura del motore. D'altra parte nel 1950 sbarcai a Caracas dal "Portugal" che compiva il suo ultimo viaggio".

Dedico ai miei nonni, e soprattutto a mia nonna, "eroina (silenziosa) dei due mondi" per la sua esistenza caratterizzata dal lavoro e dell'altruismo sia oltreoceano che nel suo Paese, questo grandissimo onore che la Municipalità di Tornimparte mi ha voluto tributare.

Grazie sindaco!
Grazie consiglieri comunali!
Grazie Associazione Pro Loco il cui presidente non a caso è un Fusari!
Grazie Associazione "Fonte Vecchia"!

Non ho fatto nulla di straordinario per meritare tanto: ho fatto solo il mio dovere, cercando di mantenere alto quel senso civico che i miei avi mi hanno inculcato.

E poichè sono un aquilano, almeno dal Settecento secondo recenti studi genealogici sulla famiglia De Nicola, io credo che questo gesto della Municipalità tornimpartese rappresenti un significativo passo verso quell'unità, soprattutto d'intenti, di cui ha bisogno questo nostro territorio in crisi d'identità.

Le basi di un progetto per un futuro migliore ce lo forniscono i nostri avi: moralità, lavoro, altruismo.

Grazie, grazie a tutti!
Municipio di Tornimparte, addì 24 settembre 2006

Angelo De Nicola